Cosmo e il suo album-rivoluzione: «Ho dato uno schiaffo a tutto»
Non ha seguito nessuna regola del pop e invita tutti a tornare al rito del ballo (anche) per superare le ingiustizie: Cosmo è tornato
Che cosa può significare aver bisogno di un album nel 2021? Quando puoi avere a disposizione tutta la musica che vuoi quando vuoi. Perché l’album di Cosmo, La Terza estate dell’amore, il quarto della sua carriera, oggi pare proprio necessario. Attenzione: occorre fermarsi e ascoltarlo bene, perché non è così immediato come i precedenti L’ultima festa e Cosmotronic.
In fondo tutti noi abbiamo bisogno di aver fiducia in qualcosa che ci risollevi gli animi. Che ci dia la speranza che si possano superare le enormi diseguaglianze della nostra società tornando a unirci e a riappropriarci di riti collettivi essenziali come il ballo. Ridandogli tutta l’importanza che riveste, a dispetto della campagna di denigrazione che l’industria culturale tutta e in particolare quella del divertimento ha subito in questi mesi.
Forse La terza estate dell’amore (dopo la prima summer of love del movimento hippy di fine anni ’60 e la seconda dei rave anni ’80) è quella che ci aspetta alla fine di un periodo che definire buio è dire poco? Ciò che possiamo sperare nell’immediato è soprattutto di poter tornare a ballare a un concerto di Cosmo – Marco Jacopo Bianchi. Uno degli artisti più politici che siano in circolazione in Italia in questo momento, come ha dimostrato il suo coraggioso intervento agli Stati Popolari della musica l’anno scorso. E come questo album ne è la riprova, sia nella forma dei ritmi che nella sostanza dei testi.
Ecco un’anticipazione dell’intervista che troverete integrale sul prossimo numero di giugno di Billboard Italia.
Non hai voluto comunicare La terza estate dell’amore fino a una settimana prima dell’uscita, quando lo hai fatto sentire tutto intero da diversi luoghi simbolici in Italia durante una diretta su YouTube: perché? L’hype nato intorno a Cosmotronic ti aveva infastidito?
Sarei stato ancora più estremo e l’avrei fatto uscire di botto. Poi mi hanno fatto notare che forse sarebbe stato difficile riuscire a gestire il pre-order, così ho anticipato di una settimana. Volevo giocarmela in maniera diversa dal solito schema singolo-album- tour. Sicuramente con il mio manager Emiliano (Colasanti, 42 Records, ndr) abbiamo pensato che non avesse molto senso far sentire solo un singolo perché non avrebbe fatto capire bene il progetto. Quindi meglio così: una botta tutta insieme e via.
Cosmo: «Per me è pop nel senso che volevo arrivasse a tutti. Ma volevo scrivere un album rivoluzionario nel messaggio e nella forma»
In questo album si può trovare di tutto ma non hai strizzato l’occhio al pop da classifica.
Per me invece è pop, nel senso che mi auguro che possa arrivare a tutti. Come lo erano Close to Me dei Cure o Come è profondo il mare di Lucio Dalla. Mi piace ciò che va al di là degli schemi. Basta schema strofa-ritornello-strofa con voce ammiccante e suoni pieni. Ok, chiamiamolo diversamente pop, in questi giorni faccio fatica a trovare la novità che mi entusiasma e ho cercato di produrre qualcosa che stupisse in primo luogo me. Volevo che fosse un disco “rivoluzionario” nel messaggio e nella forma.
In Antipop canti anche “è musica-no fabbrica”: un grido contro chi produce hit in batteria?
Certo. Dovremmo essere artisti, fare un po’ come ci pare. Volevo fare una ricerca diversa dai canoni che si sono imposti oggi in maniera fin troppo asfissiante.
In La terza estate dell’amore infatti si nota subito una ricerca ancora più approfondita sui suoni elettronici, a volte del passato: che cosa hai esplorato in questi mesi?
C’è tanta acid house con riferimenti alla fiammata rave anni ’80. Anche il titolo è un riferimento a quella che spero sia la terza Summer of Love dopo quella hippy anni ’60 e quella rave appunto. C’è molta ambient. Mi sono concesso, come mai prima, anche un paio di momenti rilassati con Gundala e Noi.
Ci sono anche molti suoni world mai sentiti nelle tue produzioni precedenti.
Molto deriva dalla mia esperienza con Ivreatronic (l’etichetta elettronica di Cosmo, ndr). Mi piace il neo-tribalismo industriale, mi ha sempre affascinato e ho cercato di unire una dimensione più atavica a una più moderna, elettronica e acida.
Anche Fresca parte lenta e poi cambi tutte le carte in tavola e diventa quasi un pezzo di Prince. In questi mesi che cosa hai capito?
Che è bello rallentare i ritmi e i bpm, non pensavo fosse possibile in un dj set. Invece è stata una scoperta anche grazie ai miei colleghi/amici Marco Foresta e Ugo Sanchez. È una attitudine sicuramente legata anche alla pandemia e al fatto che ci siamo dovuti fermare. E poi ho capito la gioia nel creare i pezzi matti come Fresca, appunto.
«Ho capito quanto sia bello rallentare i ritmi così come i bpm. Ma anche inventare pezzi matti»
Alla fine quindi ti sei stupito del tuo lavoro?
Appena finito mi faceva schifo. Forse perché ero troppo abituato a sentirlo in continuazione, ad ascoltarlo in ogni minimo dettaglio (Cosmo è il produttore e lo ha mixato insieme a Andrea Suriani, ndr). Dopo un po’ l’ho riascoltato e ho pensato che avevo ottenuto proprio quello che volevo. Forse è un po’ troppo intenso perché non ho tagliato proprio niente. Avrei potuto escludere 1 o 2 pezzi per renderlo più fruibile. Oh però, dai, non faccio un disco da 3 anni!
Ma “La terza estate dell’amore” può riferirsi anche alla tua terza figlia nata solo qualche giorno fa?
In effetti sono nati insieme lei e il disco (ride), ma è una coincidenza. È la terza estate in cui sono papà per la prima volta perché anche gli altri due sono nati più o meno in questo periodo.
Hai prodotto questo album nel tuo studio a casa di Ivrea come i precedenti?
No, ne ho comprato uno con i ricavi di Cosmotronic, vicino a casa. Non mi sono concesso molto altro: non ho ancora la macchina di proprietà e vado in giro con il furgone dei Drink To Me e l’auto di mia moglie.
Cosmo: «La musica e il rituale del ballo sono necessari, non cazzate!»
Sicuramente il tuo disco fa venire una voglia incredibile di tornare a ballare. Tu credi che ci possa essere questa rinascita?
Sì, ci vuole una speranza. Io penso che questo periodo repressivo nei confronti delle pulsioni farà detonare qualcosa di positivo. Immagino poi che ci sia davvero voglia di tornare ai concerti e a ballare. Ma ora ci troviamo di fronte anche a un’immensa crisi economica. Son venuti al pettine tutti i nodi dalle disuguaglianze sociali ai disastri ecologici. Tutto questo deve essere affrontato, possibilmente superato, ma non so come.
Se la sono presa troppo con chi si divertiva in questi mesi?
Ovvio. L’aspetto più impressionante è che le serate e i live non abbiano ancora un protocollo. Ma perché non hanno fatto degli esperimenti come in Spagna e a Londra? Solo adesso iniziano, anche se io mi ero anche proposto per fare una sperimentazione per bene ma alla fine non si è fatta. È come se ci fosse sempre un problema ideologico: meglio aprire senza regole le discoteche. Così poi fai i video e dai la colpa sempre a chi ci va. Ma una cosa che deve essere chiara è che la musica e il rituale del ballo sono necessari, ci sono sempre stati, non sono cazzate!
Con questo disco ho voluto dare uno sputo in faccia a tutto ciò. Scaricare la responsabilità sui singoli mi pare sia stato il gioco delle istituzioni. Nessuno è andato a chiedere conto alla sanità lombarda che aveva tagliato le spese per il pubblico in tutti questi anni. Si è puntato il dito sui ragazzini. Io ero contento quando vedevo le feste illegali – e non perché andassero contro la legalità, sia ben chiaro – ma perché mi hanno dato una speranza. Ho pensato: ok, non si fa ma almeno qualcuno continua a vivere.
«Quando ho visto le feste illegali ero contento – e non perché andassero contro la legalità – ma perché mi hanno dato la speranza che ci fosse ancora qualcosa di vivo»
Hai parlato di successo nel tuo coraggioso discorso agli Stati Popolari: come lo spieghi oggi ai tuoi figli?
Sai, non ne parliamo mai? Non ho un successo clamoroso per cui non posso uscire di casa, i miei figli sono venuti al Forum d’Assago e si sono divertiti ma lo vedono come il lavoro del papà. Una volta però mi ricordo di quando mio figlio a sei anni mi chiese: “Ma papà tu quanti follouir hai?”. Io volevo scoppiare a ridere ma mi sono trattenuto e gli ho risposto 100mila. Lui è rimasto un po’ stupito, non capiva proprio cosa fossero e quando gli ho detto che erano le persone che mi seguivano ho peggiorato ancora di più la situazione perché ha guardato fuori dalla finestra e mi ha chiesto: “Ma come ti seguono?”.
Leggi tutta l’intervista sul numero di giugno di Billboard.