Greta Van Fleet: più che un mito da sfatare un caso da approfondire. L’intervista
Seconda prova discografica per la band americana, The Battle at Garden’s Gate cerca di alzare l’asticella della proposta artistica del quartetto, oggi più maturo e forte di una produzione di primo piano
In Italia, come nel mondo, esiste una certa area di pubblico e stampa per la quale se sei giovane, fai una musica ascrivibile al rock e hai ampio successo commerciale, o sei un fasullo o non sei rock affatto. Salvo poi vestirsi a lutto per la scomparsa di questo macro-genere dalle classifiche. Nel nostro paese l’abbiamo visto recentemente nel caso dei Måneskin. A livello internazionale, gli strali degli attempati hater si sono concentrati sugli americani Greta Van Fleet, “rei” di aver riproposto formule classiche dell’hard rock anni ’70.
Più stimolante sarebbe – semmai – cercare di capire come abbia fatto questo quartetto a costruire uno dei pochissimi progetti rock di reale successo oggigiorno puntando su un pubblico di teenager. Ma anche, va detto, su una fascia più âgé: lo testimonia la loro presenza fissa nella rotazione delle radio rock nostrane. E già una simile duplicità di pubblico è una peculiarità notevole, su cui una piccola minoranza di artisti può contare. Aggiungiamo a questo l’intelligenza di aver concepito quelle sonorità Seventies come una sorta di piattaforma per la diffusione di messaggi ultra-contemporanei: ambientalismo, identità sessuali, self-empowerment, senso di comunità, narrati attraverso un filtro spirituale e fortemente simbolico. Ed ecco che, più che un mito da sfatare, i Greta Van Fleet ci appaiono come un caso da approfondire.
Ci dà l’occasione per fare ciò l’uscita del loro secondo album, The Battle at Garden’s Gate, disponibile dal 16 aprile e prodotto da un grande architetto del rock moderno come Greg Kurstin. Con i suoi modi affabili e la parlantina misurata, ci ha raccontato tutto il batterista Danny Wagner. Ecco un estratto dell’intervista che troverete integralmente sul numero di aprile di Billboard Italia, in uscita venerdì 16.
Sono passati due anni e mezzo dal vostro album d’esordio e il mondo è un posto completamente diverso. In che modo siete cambiati voi?
Siamo senz’altro diversi. Ci troviamo in un momento unico della nostra vita: siamo ancora giovani, per cui abbiamo ancora molto da assorbire, ma rispetto al tempo del nostro album d’esordio oggi abbiamo alle spalle anni e anni di tour e di esperienza come musicisti e songwriter. Dal punto di vista delle capacità, direi che abbiamo fatto molta strada rispetto a prima.
Avete spesso descritto questo album come “cinematico”. Spiegami meglio perché.
Abbiamo tante ispirazioni che vanno oltre la musica: film, storytelling, letteratura… Soprattutto il cinema: Josh (Kieszka, il cantante, ndr), per esempio, è stato filmmaker e fotografo. Quando ci siamo messi a lavorare su quest’album ci siamo resi conto che le canzoni avevano un loro forte carattere, come se fossero capitoli di una storia. Una volta completato l’album, la sua “densità” ce lo ha fatto percepire come molto cinematico. E da ciò viene il titolo. Dare un titolo a quest’album era come darlo a un film o a una storia.
Heat Above presenta quel riconoscibile suono di organo Hammond, che è un po’ una novità per voi. Avete voluto anche spaziare dal punto di vista della strumentazione?
Senz’altro. Sam è sempre stato bassista, ma in cuor suo si è sempre sentito anche tastierista. Però non era sempre facile andare in tour con una grossa strumentazione per tastiera, per cui preferivamo mantenere le cose semplici. Iniziammo a scrivere Heat Above ormai sei anni fa. Del resto, molti brani dell’album vengono dal passato: è che non risuonavano bene con ciò che pubblicavamo in quel periodo. Per cui li abbiamo tenuti nel cassetto, fino a quando con questo disco non abbiamo capito che volevamo incorporare molti nuovi elementi. Heat Above era nata come canzone di tastiera e organo, quindi naturalmente abbiamo voluto registrarla in quel modo.
Cos’ha ispirato il video della canzone, con voi vestiti più o meno da angeli?
Il singolo è stato pubblicato all’inizio dell’anno. Con questo nuovo album, che vuole rappresentare una nuova evoluzione dei Greta Van Fleet, ci piaceva l’idea del bianco in quanto “tela vuota”, anche nell’ottica di aprire la propria mente a nuove idee e prospettive. Contiene anche riferimenti all’idea di mascolinità, di androginia, temi importanti oggi nel mondo che abbiamo voluto catturare con questo video. Abbiamo voluto indossare abiti lunghi per dire che ognuno è libero di essere ciò che sente. Per cui ci sono diversi significati.
Josh ha anche detto che ci sono riferimenti di tipo biblico nel corso dell’album. Data la vostra attitudine spirituale, quali sono i vostri sentimenti verso la religione?
Siamo molto aperti su questo tema. Rispettiamo assolutamente tutte le religioni. Siamo cresciuti in una città prevalentemente cattolica e abbiamo imparato ad apprezzare la religione. Poi abbiamo girato il mondo e, incontrando persone di tutti i tipi, abbiamo capito ancora di più come la religione sia rispettabile in ogni senso. Quando abbiamo usato l’Hammond B3 nelle registrazioni dell’album, per Sam aveva senz’altro un riferimento di tipo religioso. La musica in generale ha sempre avuto a che fare con la religiosità, perlomeno dal punto di vista dei suoni, non necessariamente dei testi.
Vista la vostra sensibilità ambientale, cosa pensate di avere in comune con un’altra celebre Greta (Thunberg, ovviamente)?
Sentiamo di essere dei grandi sostenitori di Greta. Come lei, pensiamo che sia estremamente importante che questa generazione faccia sentire la propria voce. Noi siamo ciò che vedremo nel futuro, è una nostra responsabilità. In questo senso, siamo grati che ci siano delle voci che cercano di comunicare queste tematiche e di fare qualcosa al riguardo.