Bob Dylan al pianoforte è un’esperienza mistica (in modalità phone-free)
Il leggendario cantautore è in Italia con il “Rough and Rowdy Ways Tour”. L’abbiamo visto dal vivo al Teatro degli Arcimboldi a Milano
Milano, foyer del Teatro degli Arcimboldi, lunedì sera. Sono in attesa di entrare in platea per una delle numerosissime date del tour mondiale Rough and Rowdy Ways che è iniziato nel 2021 e finirà nel 2024.Ho sempre ritenuto il mio amore per Bob Dylan un private affair, consapevole che esiste una pletora di giornalisti così devoti al primo songwriter che ha ricevuto un premio Nobel per la letteratura che non ci fosse bisogno di un mio pensiero pubblico.
La liturgia dei live di Bob Dylan
In eventi come questi scattano delle liturgie che guardo con interesse più antropologico che giornalistico. Noto alcuni padri che con orgoglio passano il biglietto appena ritirato in cassa al figlio: “Ecco, stasera vedrai in carne e ossa la storia della musica”, mentre il figlio annuisce (per un attimo non accadono conflitti transgenerazionali).
Poi osservo alcuni colleghi passare il poco tempo prima del concerto a raccontarsi compiaciuti alcuni aneddoti di lontani live di Bob Dylan. Molti di loro poi saranno ricurvi su se stessi, nella penombra del concerto davanti a microscopici block notes, pronti ad annotare ogni piccolo inedito sussulto di Dylan.
Peraltro non ci sarebbe stata altra maniera di riportare con dovizia quello che è accaduto dentro il Teatro degli Arcimboldi se non adoperandosi alla vecchia maniera. L’alternativa era l’uso della memoria. In sala non era concesso alcun tipo di tecnologia, fra cui le immancabili protesi del nostro corpo, gli smartphone.
Il concerto phone-free di Bob Dylan
Per rispetto a Bob Dylan, nessuno (ma proprio nessuno) si è lamentato nell’affidare il proprio cellulare alla custodia Yondr. Per Milano era il primo concerto “phone-free”.
Una via di mezzo l’avevo notata, sempre qui negli spazi degli Arcimboldi, con la recente data di Siouxsie. Solo che nel suo caso non c’era lo Yondr in azione ma un manipolo di maschere attentissime e scrupolose.
Per evitare la coda Yondr, ho lasciato la mia protesi multimediale in auto e ho avuto poi il piacere di avere a disposizione una poltrona favolosa. Di fronte a me, solo il corridoio di passaggio del pubblico. Così ho potuto avere la prospettiva libera fino al pianoforte di Bob Dylan.
Le canzoni di Rough and Rowdy Ways
Lui è stato quasi sempre seduto, raramente in piedi. Ma dietro la tastiera ho intravisto una giacca cool e per un istante ho pensato a Jerry Lee Lewis, un grande del rock’n’roll primitivo.
Bob Dylan al piano e le sue canzoni di Rough and Rowdy Ways sono gli elementi principe dello spettacolo. Attorno a lui, i suoi musicisti quasi stretti a coorte con le luci soffuse e un sipario di velluto rosso. Ci sono le chitarre di Doug Lancio e il basso di Bob Britt (non c’è Charlie Sexton, che era presente nel disco). E poi Tony Garnier al contrabbasso, Jerry Pentecost alla batteria con i suoi immancabili occhiali bianchi (forse era meglio Charley Drayton, che aveva formato i Divinyls e suonato con i Cult) e l’ottimo polistrumentista Donnie Herron.
Come detto, si sta ascoltando praticamente dal vivo il notevole Rough and Rowdy Ways. Sin dal primo ascolto di quel disco mi ero perso nelle languide note di I’ve Made Up My Mind to Give Myself to You e nella severità di Black River.
Le canzoni che si snocciolano durante il live sembrano sospese nell’aria. Il canto di Bob ha qualcosa di mantrico. Il tono sale e scende impercettibilmente, si comprendono delle parole, altre rimangono lì, appoggiate sopra il pianoforte. Il Maestro cerca di sollevarle alzandosi dal suo posto dietro lo strumento e le accompagna con accordi suonati in maniera più decisa.
Un altro spazio-tempo
L’accolita dei musici (m’immagino Vinicio Capossela qui tra noi) suona un perfetto mix di rock e blues e a volte accelera (Gotta Serve Somebody è un boogie muscoloso).
Le luci soffuse e il salmodiare di Dylan mi trasportano in uno spazio-tempo differente. Il piede di un giornalista accanto a me che batte il tempo di Not Fade Away mi riporta nella realtà.
Sono quasi pronto a prendere anche io lo slancio finale. Arriva Every Grain of Sand. Dylan suona l’armonica per la prima volta e saluta tutti portandosi sul proscenio. Io, come il mio collega davanti, forse perché trasportato dalla precedente dimensione mistica, sfrutto il corridoio davanti a me e arrivo in un tempo da centometrista sotto il palco. Non basta. Lui è già andato. Peccato, avrei voluto vedere da vicino la sua giacca.