Devo, 50 anni di preveggenze e paradossi estetici inarrivabili
Negli anni ’70 i Devo avevano previsto il futuro e lo rivelavano con musiche aliene e testi all’insegna del paradosso. Ora celebriamo il loro mezzo secolo di storia con una bella raccolta
Venerdì 20 ottobre è uscito un notevole cofanetto dei Devo per Rhino Records, 50 Years Of De-Evolution (1973-2023). È una panoramica puntuale su tutti e 50 gli anni della carriera dei Devo, ma c’è anche una selezione di rarità.
Intanto per festeggiare questo mezzo secolo di “de-evoluzione”, la band di Akron ha ripreso ad andare finalmente in tour (anche se invecchiati, pare mantengano una forza propulsiva notevolissima).
Akron, la città natale dei Devo
Per quello che oggi si vede e si sente ovunque, non essere ottimisti riguardo al futuro è, comprensibilmente, la norma. Mezzo secolo fa, in giorni che comunque non mancavano certo di situazioni critiche, si viveva invece in un clima ben più positivo, figlio dell’onda lunga degli anni ’60, dello sbarco sulla Luna, delle conquiste sociali.
Eppure, in una città di nemmeno 300mila anime situata nel centro-nord degli Stati Uniti, muoveva i primi passi una band che aveva previsto molto di quanto sarebbe accaduto e che, con le sue canzoni magnificamente stranianti, s’impegnava a mettere in guardia la società occidentale dei pericoli legati alla sua condotta scriteriata.
Il catastrofismo dei ragazzi che la componevano aveva solidissime giustificazioni. Risiedere ad Akron, Ohio, nota come “la capitale mondiale della gomma” in quanto sede delle quattro aziende leader americane nella produzione di pneumatici, doveva essere un incubo, con i fumi neri e il cattivo odore che impregnavano l’aria e un inquinamento a livelli tali che il fiume Cuyahoga di tanto in tanto prendeva spontaneamente fuoco, per non dire delle deprimenti architetture delle fabbriche e dell’alienante inquadramento dei lavoratori.
Il nome scelto dal gruppo era strettamente connesso al messaggio lanciato tramite testi e musiche: Devo, abbreviazione/contrazione di de-evolution, ovvero “evoluzione inversa”.
Un’estetica fra tribalità e tecnologia
Il tetro panorama mostrato dal quintetto era fin dall’inizio – 1973 la nascita, 1974 i primi demo, 1976 l’assestamento dell’organico che ha fatto la storia, 1977 l’esordio a 45 giri, 1978 il primo LP – quello di una razza umana ormai schiava delle macchine, dei mass media, degli status symbol e dell’apparente benessere consumistico, spogliata di ogni scintilla di individualità e di raziocinio, condannata a regredire fino allo stadio della… patata, “spud”.
Da qui i movimenti a scatti, le espressioni assenti, le tute gialle uniformi e identiche a quelle usate per la protezione dalle scorie velenose (e poi gli altri look ancora più fantasiosi e bizzarri), i riferimenti alla tribalità contrapposti al rigore della tecnologia, gli slogan darwiniani (“the fittest shall survive”, il più idoneo sopravviverà), il culto del DNA, l’esaltazione del mongoloide come unico esempio di non-allineato alle regole, la metafora dell’uomo scimpanzè e l’alter-ego infantile Booji Boy.
Un quadro stravagante ma organizzato con coerenza “semi-scientifica” partendo dagli opuscoli diffusi negli anni ‘20 dal pastore americano B.H. Shadduck ed esposto in My Struggle, libretto di 300 pagine firmato dal cantante/tastierista Mark Mothersbaugh (ma i meriti della teoria vanno divisi con il bassista Gerald V. Casale e il co-fondatore Bob Lewis, quest’ultimo defilatosi quasi subito) e pubblicato in proprio nel 1978.
Ulteriore supporto dell’ingegnoso immaginario, i visionari videoclip che hanno segnato la carriera dell’ensemble, la cui lineup classica, in attività dal 1976 al 1986, era completata dai chitarristi Bob Mothersbaugh e Bob Casale e dal batterista Alan Myers. Il mini-film (nove minuti) In the Beginning Was the End: The Truth About De-Evolution, datato 1976, è un manifesto tanto acerbo quanto eloquente della straordinaria creatività a 360° del progetto.
Fautori di un culto particolare
Com’era logico che fosse, molti fraintesero i Devo. I loro avvertimenti rimasero inascoltati come i vaticini della Cassandra cara a Omero. Troppo facile considerare il tutto come l’ennesima trovata per distinguersi dalla massa, come un’eccentrica goliardata, nella peggiore delle ipotesi come un delirio di gente fuori di testa.
Quando si è troppo avanti, si sa, le incomprensioni sono inevitabili. Gli scetticismi non impedirono però all’ensemble di divenire una delle voci di punta della cosiddetta new wave, amato da molti illustri colleghi, i più illustri: David Bowie, che avrebbe desiderato produrne l’esordio a 33 giri, e Brian Eno, che glielo produsse ma anche mitizzato da una folta platea internazionale. Una devozione che ha resistito per decenni, a dispetto dei tempi che cambiano e di una discografia non omogenea sul piano qualitativo.
In ogni caso, a conferire alla band l’immortalità basterebbero i primi due album. Q. Are We Not Men? A. We Are Devo (1978) e Duty Now for the Future (1979), editi negli Stati Uniti dalla Warner Bros e in Europa dalla Virgin, sono capolavori di rock proiettato nel futuro nei quali sono riassunti tutti i topoi della dottrina de-evoluzionista, con Jocko Homo, Mongoloid, Satisfaction (cover stravolta dell’inno dei Rolling Stones), Come Back Jonee, Gut Feeling e Smart Patrol / Mr. DNA come brani cardine.
Questo è l’ABC, ma per chi volesse approfondire Hardcore Devo (Superior Viaduct, 2013) raccoglie in due CD moltissimi demo realizzati artigianalmente tra il 1974 e il 1977, mentre da pochissimo è uscita una nuova raccolta: 50 Years Of De-Evolution (Rhino, 2023). In cinquanta tracce – due CD o quattro LP – c’è in sintesi l’intero percorso.
The end?
Il percorso di 50 anni dei Devo incredibilmente non vede ancora la parola fine. Mark Mothersbaugh, Gerald Casale e Bob Mothersbaugh (Bob Casale e Alan Myers non sono più tra noi) non smettono di raccontare dai palchi quel futuro che all’epoca sembrava apocalittico e che, invece, è purtroppo diventato presente.