30 anni di “In Utero”, il disco più bello dei Nirvana (forse)
Il terzo e ultimo album del trio statunitense, simbolo della musica grunge, compie il suo trentesimo compleanno. Ancora oggi rimane un disco rilevante
È il 21 settembre del 1993, hai quattordici anni e hai appena acquistato nel negozio di dischi più vicino a casa In Utero dei Nirvana. Hai ancora in testa i power chords melodici e i riff dissonanti di Nevermind e sei tra i pochi che ha resistito alla tentazione di comprarsi una camicia di flanella a scacchi.
Fin qui è facile immaginare le possibili sensazioni vissute da chi, in quel periodo, era nel pieno dell’adolescenza. Più complicato è provare a ipotizzare le emozioni provate – sempre dal nostro “Tu” protagonista – nel momento in cui ha ascoltato per la prima volta Serve the Servant e Scentless Apprentice. Suono sporco, il grunge che prende quasi la direzione del metal e l’aggressività della voce di Kurt Cobain che urla nel microfono «Go away», di certo avranno provocato un effetto sorpresa. La stessa che si prova ancora oggi se lo si ascolta di seguito, subito dopo Nevermind.
In Utero oggi compie trent’anni, eppure sembra uscito ieri. Non è un discorso legato al tempo che è passato troppo velocemente, ma al suono di un disco che disturba, eccita e commuove. È il miglior album dei Nirvana? Forse, e chi lo sostiene non lo fa per snobismo o per rinforzare la propria opposizione nei confronti di qualsiasi cosa che ottenga un successo commerciale di grandi proporzioni. Anche perché, spoiler, In Utero raggiunse la prima posizione nella Billboard 200, ha ottenuto 5 dischi di platino e ha venduto 15 milioni di copie in tutto il mondo.
In Utero, i Nirvana e il “pachiderma” nella stanza
I Nirvana usciti dal 1991 erano una band di successo insoddisfatta della piega che stava prendendo la propria sonorità. La produzione di Butch Vig aveva ripulito Nevermind al fine di renderlo un prodotto più radiofonico e questo spinse Cobain, Grohl e Novoselic a cercare delle rotte alternative. Da un lato c’era la volontà di tornare al sound originario di Bleach collaborando di nuovo Jack Endino, dall’altro il desiderio di spingersi oltre i propri limiti.
La seconda opzione rispondeva al nome di Steve Albini che, dopo l’esperienza con i Black Flag, aveva iniziato la propria carriera da produttore. Personaggio spigoloso, soprattutto quando si tratta di musica. Albini inviò una lunga lettera alla band – pubblicata in occasione del ventesimo anniversario di In Utero – insieme a una copia di Rid of Me di PJ Harvey, che lui stesso aveva prodotto nello stesso anno, prima di accettare il ruolo.
«Mi piace lasciare spazio agli incidenti e al caos. Fare un album impeccabile, in cui ogni nota e sillaba sono al posto giusto e ogni colpo di cassa è identico al precedente, non è un’impresa – scrisse Albini a Kurt e soci – Qualsiasi idiota con abbastanza pazienza e un budget che gli permetta di fare una tale idiozia può farcela». Le sue scelte e questo suo atteggiamento anti-mainstream generarono non pochi contrasti con la DCG, etichetta della band di Seattle.
I Nirvana registrarono In Utero in soli sei giorni, nello stesso studio utilizzato da Steve Albini per PJ Harvey. Il Pachyderm Recording Studio, a Cannon Falls, in Minnesota, è un edifico sperduto in mezzo a una foresta. Il luogo perfetto per distanziare la band dalla confusione della città. Dopo appena cinque giorni di missaggio, il disco venne inviato alla casa discografica che lo giudicò inascoltabile.
Il suono
Nonostante le lamentele della DCG, Bob Ludwig, chiamato a rimasterizzare i tape, ha lavorato solo sui singoli. Tra questi ci sono ovviamente Heart-Shaped Box – ispirata alle caramelline a forma di cuore di Courtney Love – e la traccia finale All Apologies. Quest’ultima costruita con la formula tipica dei Nirvana: strofa soft e ritornello esplosivo.
Se c’è però un aggettivo che meglio descrive In Utero dei Nirvana, è aggressivo. L’aggressività emerge dal suono della chitarra di brani come Radio Friendly Unit Shifter – a metà strada tra il grunge e il noise punk – e Very Ape con il suo riff ammaliante. La crudezza è anche nel modo di cantare di Kurt Cobain, molto meno accomodante e più sofferto. Oltre alla già citata Scentless Apprentice, vale la pena nominare Pennyroyal Tea. Oltre che la solita Rape Me, le cui vocals sono state registrate in una session di sei ore.
I testi dell’album più (im)personale dei Nirvana
In Utero si sarebbe dovuto intitolare I Hate Myself and Want to Die, una frase che Kurt Cobain in quel periodo continuava a ripetere a chiunque gli chiedesse come stava. Poi Novoselic e Grohl gli fecero cambiare idea. D’altronde, lo stesso Kurt lo definì un album molto più impersonale rispetto al precedente.
I testi di molte canzoni di In Utero, la maggior parte scritti nel 1992 e rifiniti durante le registrazioni, prendono spunto perlopiù da suggestioni. Ci sono il romanzo Profumo di Patrick Süskind in Scentless Apprentice, la vita dell’attrice Frances Farmer in Frances Farmer Will Have Her Revenge on Seattle e l’immedesimazione in una vittima di stupro nella disturbante Rape Me.
È risaputo però che gli artisti, per quanto cerchino di ripararsi all’ombra della propria arte, non riescono a controllare tutto. E allora l’intimità e i lati più nascosti della loro anima sgorgano a piccole dosi. Come in Serve the Servant che è uno sfogo nei confronti di una vita professionale e familiare che dopo Nevermind è cambiata di botto. Oppure come nel primo verso di Milk It, «I’m my own parasite», dal quale traspare il malessere interiore di Kurt.
In Utero dei Nirvana, a trent’anni di distanza, uscirà in un’edizione speciale con 53 tracce inedite, tra demo e live mai pubblicati prima d’ora. A dimostrazione del fatto che è un disco prima di tutto moderno, nei suoni, nei temi e nell’anima. Forse anche più di Nevermind. E non lo scriviamo per snobismo.
Articolo di Samuele Valori