Bolero con le idee ben chiare: intervista a Lucrecia Dalt
La musicista colombiana ci racconta gli inizi della carriera e il suo nuovo album, aspettando il live all’Ortigia Sound System Festival
Dal punto di vista tecnico, gli album di Lucrecia Dalt, specie l’ultimo ¡Ay!, sono uno spettacolo. I suoni sono maneggiati e modellati in maniera certosina, l’equilibrio tra gli elementi è perfetto, l’uso degli effetti e dei processori di dinamica è sempre dettato da un gusto estremo.
E dal punto di vista di una persona che si mette semplicemente lì ad ascoltare la musica? Bene, anche in quel caso gli album di Lucrecia Dalt continuano a essere uno spettacolo. Già al primo ascolto si viene rapiti da ritmi sinuosi, spazi sonori esoticamente riferiti alle origini della musicista colombiana. In più, non ti capita tutti i giorni di sentire musica non pop che però ti canticchi già la seconda volta che l’ascolti – prendo come esempio un capolavoro come Atemporal, che del sopracitato album è la terza traccia.
È così che si farà ricordare una musicista dal talento sconfinato e dalla gentilezza rara come Lucrecia Dalt, che ha iniziato la sua carriera come ingegnere geotecnico ma che un bel giorno, nei primi Duemila, ha capito che la musica le avrebbe dato qualche soddisfazione in più di progettare gallerie. Suonerà il suo bolero eccentrico al Teatro Comunale di Siracusa il 30 luglio, invitata dall’Ortigia Sound System Festival. E noi, superfluo dirlo, ci saremo.
L’intervista a Lucrecia Dalt
Sei già in tour?
Sì, ad aprile ho già fatto dieci date. Ora sto facendo un po’ di concerti in America e poi tornerò in Europa per continuare il tour.
Ma ci si fa mai l’abitudine alla vita in tour?
[ride] No. Più che altro sviluppi diverse strategie per affrontare il tutto. Perché è un’esperienza molto intensa per il corpo. E più invecchio e più è intensa. Ma mi piace così tanto suonare che alla fine ne vale sempre la pena. C’è quel momento durante il concerto in cui capisci: “OK, ecco perché faccio tutto questo”. Però, ecco: a volte, la combinazione di viaggi e privazione di sonno ti mette in una costante situazione di stress.
Sì, dev’essere difficile soprattutto prendere sonno dopo un concerto.
Sì, a volte cerchi di rilassarti quando torni in hotel. Ma sei ancora sotto adrenalina per lo show. Quando suono mi faccio trasportare dalle emozioni, quindi quando finisce tutto e torno in albergo si tratta di obbligare il corpo a fare qualcosa che non è ancora pronto a fare in quel momento.
Stai suonando solo il nuovo album in questo tour?
Ci sono anche pezzi più vecchi. Ne suono una molto vecchia che si chiama Turmoil, del 2012.
OK, quindi è già sotto il nome Lucrecia Dalt.
Sì, poi suono qualcosa da No Era Sòlida, un paio di tracce da Anticlines. Nella scaletta del live ci sono vari momenti da diverse fasi della mia carriera. Mi piace così.
Nei precedenti album è più presente l’inglese, o sbaglio?
Ci potevi trovare una traccia in spagnolo e poi una in inglese, e poi magari una combinazione dei due. Diciamo che non pensavo molto alla lingua, fino a quest’ultimo album, dove ho voluto esplorare lo spagnolo, la mia scrittura in spagnolo.
È stato un po’ un ritorno alle tue radici.
¡Ay! è stato comodo e impegnativo allo stesso tempo. Penso che lo spagnolo non sia così elastico come l’inglese. Gli accenti in spagnolo sono importanti e ho sempre trovato meno responsabilità in inglese, perché è la mia seconda lingua e l’ho imparata da grande. Quando studi tutti gli elementi nella tradizione del flamenco e poi scopri che le parole possono essere molto più elastiche e possono seguire molte meno regole, allora ti senti un po’ più libera. Tendevo anche ad allungare le parole, senza curarmi se alla fine la gente avrebbe capito effettivamente il significato. Alla fine la lingua è il vettore ma il messaggio è lì, se vuoi trovarlo. Non sono canzoni d’amore da cantare a squarciagola, non so se mi spiego.
Volevo rievocare i ricordi, le sensazioni di quando ero bambina in Colombia. Quindi, il bolero ma anche altri generi che sono diffusi un po’ ovunque in America Latina. Il bolero poi è stato usato anche in tutto il mondo, da italiani, come Mina, o anche francesi come Gainsbourg. Diciamo che era molto in voga negli anni ‘50-60. Si è originato a Cuba, con un pattern di conga e tumba e poi si è diffuso ovunque. Lo trovi anche in Vietnam.
E come l’hai reso tuo?
Volevo rendere quell’idea senza però provare a tutti i costi a fare il bolero. Ho individuato ciò che costituisce quel genere e l’ho tradotto in ciò che faccio ora. Una parte quindi è stata l’uso di fiati, ma anche percussioni come conga, maracas e campanacci. Questi erano gli elementi essenziali, che sono comunque stati processati molto. Altri non essenziali tipo il contrabbasso li ho evitati. Ci sono molti synth, come sempre.
Si nota sempre una cura meticolosa nei suoni.
Sono molto attenta ai suoni, in generale. Le decisioni che prendo sono sempre legate alla trama sonora, per espandere le possibilità che ha un suono crudo. Non mi soddisfano solo chitarra e voce, non mi soddisferanno mai. Ho sempre usato fonti crude e poi ri-processate, come la mia voce o un basso o qualche altro elemento. Quando inizio a comporre posso già percepire questi strati. Ho già un’idea di come le parti suoneranno, influenzate da altro. È questo che rende il mio album davvero mio. È il mio modo naturale di produrre. Se rimuovi tutti gli effetti e il processing, viene fuori tutt’altro album. Mi piace molto il processo, anche la sua parte iniziale di voce e tastiera, per poi espandere le possibilità. Ed è anche il motivo per cui mi piace lavorare anche alle colonne sonore: manipolare le emozioni con le trame sonore.
Come è nata la tua carriera nelle colonne sonore?
Tutto è iniziato quando una mia traccia, Esotro, è stata scelta da un regista per il suo film. Mi aveva contattato dicendomi che stava montando il girato e che voleva che il mio pezzo diventasse una specie di leitmotiv. Così mi ha chiesto di comporre la soundtrack. Gli ho risposto che non avevo esperienza in queste cose ma che mi sarebbe piaciuto provare. Li ho avuto conferma che è un’esperienza di composizione totalmente diversa: ricevi istruzioni, è un lavoro di team, e la parte difficile è cercare di tradurre in musica ciò che il regista sta cercando di convogliare nelle immagini. Ma devi anche proporre idee cercando di evitare i cliché. Mi è piaciuta molto come esperienza e per fortuna continua a succedere.
E ti deve per forza piacere un soggetto per poterci fare una colonna sonora?
Inizialmente sì. Accettavo film che mi piacevano, per il semplice fatto che quelle immagini rimarranno per molto tempo. Il primo film che ho fatto era un horror ma anche una commedia, molto rustico e artigianale. Lì ho capito che è soddisfacente, puoi lavorare coi suoni in una maniera davvero intensa. Quindi, per risponderti: sarebbe molto difficile per me lavorare a qualcosa che non mi stimola, che non mi piace molto. Se non sei connesso emotivamente alle immagini, è difficile trovare una musica adeguata.
Non hai paura che le colonne sonore possano portare via molto tempo alla tua vita da musicista?
Costantemente! Ieri come oggi, sto ricevendo nuove proposte di colonne sonore. Ma so anche che devo continuare a comporre dischi miei e fare i tour. Devo mantenere un giusto equilibrio: mi piacciono entrambe le cose, quindi vorrei tanto trovare un modo per continuare a farle entrambe. Un giorno mi piacerebbe avere la possibilità di fare tour e fare colonne sonore con più coscienza. Per non essere sempre dappertutto nel mondo. Meno date sarebbe una situazione ideale.
Tu però non hai iniziato da musicista ma da ingegnere: cosa ti ha spinto a cambiare vita e carriera?
In un certo senso sono sempre stata a stretto contatto con la musica e con la composizione. Da bambina ho frequentato a corsi di chitarra, piano, canto. Ero anche nel coro. Quando invece ero più grande e vivevo a Medellín, ho iniziato a girare con un gruppo di persone che aveva un’etichetta. Facevano feste, pubblicavano dischi e ho semplicemente iniziato a collaborare con loro. Ho sentito di avere una possibilità: un’intuizione pura che mi ha fatto mettere da parte l’ingegneria per un po’. C’era una pulsione più grande di quella che sentivo per l’ingegneria. E non sono mai più tornata indietro.
Quindi non è che non ti piacesse la vita da ingegnere: semplicemente preferivi quella da musicista.
All’epoca mi piaceva lavorare in ufficio, era soddisfacente perché era il mio primo lavoro. Era anche la concretizzazione di cinque anni di studi. Non ero insoddisfatta, ma ho visto le prospettive di una vita da ingegnere e ho realizzato che non sarei mai stata felice se avessi continuato. È molto lineare e tradizionale. Se studi di più sali di livello. Se studi ancora di più puoi diventare capo dipartimento e via così. Sentivo che in tutto ciò mancava qualcosa di fondamentale. Così ho avuto l’intuizione di cambiare, per fortuna. Perché non tornerei indietro per nulla al mondo.
Quando hai iniziato a firmare i tuoi dischi, inizialmente a nome Lucrecia, il mood era molto ballabile. C’è qualche ragione precisa?
Non ci pensavo troppo. Avevo diverse influenze attorno a me. Quando sei immersa in un determinato ambiente, reagisci in un determinato modo, secondo coscienza. I primissimi album tra il 2005 e il 2012 sono molto legati al contesto dell’epoca. Non pensavo molto a quello che stavo facendo. Ma va bene così: è un processo per imparare e conoscere se stessi un po’ alla volta.
Ma forse non pensi mai al tipo di musica esatto che vuoi fare, no?
In realtà con gli anni diventi più focalizzato. Hai una storia alle spalle e sai cosa vuoi e cosa non vuoi esplorare. Mentre i primi esperimenti sono tipo: “Che sto facendo? Sono qui davanti al computer a fare cosa? Aggiungo una cassa perché i miei amici di solito lo fanno?” Ora è un processo molto ponderato e consapevole. So bene cosa voglio e quali elementi mettere o evitare. Ovviamente c’è quel momento in cui ti siedi e permetti alla forza creativa di prendere il sopravvento. Però sono molto attenta a come mettere le cose insieme.
Scrivi ogni giorno?
No, non ogni giorno. Allo stesso tempo non è semplice definire con esattezza quando le cose succedono: il mio cervello è in un costante processo di creazione. Per esempio, ora ho delle intuizioni di cosa succederà nel prossimo album. Sto scrivendo poesie ogni giorno. Non ho idea di cosa ne farò, ma alcune di queste idee probabilmente diventeranno un nuovo album in qualche modo. Quindi non sto necessariamente scrivendo musica ora, però sto raccogliendo le informazioni necessarie perché succeda un album. Sto prendendo appunti mentali, diciamo. Mi piace questa fase perché, quando a gennaio o febbraio inizierò a concentrarmi davvero sulla creazione di un nuovo album, non dovrò partire da zero.