Dieci cose che forse non sapevate su “Vitalogy”, il disco che ha ucciso il Grunge e ha quasi ucciso i Pearl Jam
Il terzo album della band di Seattle venne pubblicato il 22 novembre 1994. Celebriamo i trent’anni dalla sua uscita con alcune curiosità
Pubblicato nell’autunno del 1994, il terzo disco dei Pearl Jam, Vitalogy, è l’album più eclettico della band di Seattle. Scritto ed eseguito in buona parte durante il tour di Vs. (1993), mantiene la stessa urgenza espressiva dei primi due album, ma ne amplia lo spettro sonoro, rendendolo più vario e sperimentale. Si va dal punk di Spin The Black Circle e Whipping ai pezzi di matrice rock più classica come Not For You e Corduroy, passando attraverso ballate minimaliste (Immortality) o pseudo-romantiche (Nothingman) e sperimentazioni più eccentriche (Bugs, Aya Davanita, Pry To e Stupidmop). Al netto dello spaesamento iniziale, ciò ha garantito una via di fuga per la sopravvivenza futura della band oltre il grunge degli esordi, permettendo loro di pubblicare almeno altri due grandi dischi, come No Code (1996) e Yield (1998).
Paradossalmente, tutta questa varietà stilistica non ha fatto perdere coesione al disco, ma ne ha rafforzato il nucleo tematico principale, cementificando le canzoni attorno ai temi fondamentali dell’album, ovvero le insidie del successo e della la fama e la mercificazione dell’arte. Temi che vissuti in prima persona hanno quasi messo in ginocchio la band proprio durante le fasi di registrazione dell’album, creando forti tensioni interne. Alla fine a farne le spese sarà il batterista Dave Abbruzzese che verrà sostituito da Jack Irons (uscito dai Red Hot Chili Peppers). Nonostante tutte le difficoltà – e la scarsa promozione del disco voluta dalla band (nessun video musicale e nessun tour a supporto) – Vitalogy diventerà il secondo album venduto più velocemente dell’epoca (877 mila copie in una settimana). Arriverà anche al N.1 della classifica di Billboard, grazie alla sola forza (distruttrice-creatrice) della musica in esso contenuta.
Ecco allora 10 curiosità sul disco che ha ucciso il grunge e ha quasi ucciso i Pearl Jam.
Il titolo viene da un vecchio manuale pseudo-scientifico
Originariamente il disco avrebbe dovuto intitolarsi Life. Poi il titolo iniziale (ancora presente sulla stampa del primo singolo) venne sostituito con quello di un vecchio libro trovato da Eddie Vedder in un mercatino delle pulci. Vitalogy è infatti il titolo di un manuale del 1899. Una sorta di enciclopedia di consigli pseudo-scientifici sulla salute, abbinati a credenze stregonesche sulla vita e sulla morte. Non solo i Pearl Jam riuscirono ad allegarne alcune parti all’interno del booklet del disco, ma fecero anche in modo che il formato della confezione assomigliasse di più a un libro, riproducendone persino la copertina originale. Uno scherzetto che finì per costare alla band 50 centesimi in più a copia, ovvero circa 2 milioni e mezzo di dollari per il solo primo anno. Ma come disse Jeff Ament, bassista della band: «All’epoca avevamo la testa dura su queste cose».
Contro il cd
Fin dalla sua pubblicazione, Vitalogy è un disco che si schiera ideologicamente contro il cd e in favore del vinile. Il formato preferito dai vari membri dei Pearl Jam, essendo quello su cui si erano basati i loro ascolti formativi. Per questo il 22 novembre 1994, i PJ fanno pubblicare una versione a tiratura limitata del 33 giri, prima dell’uscita ufficiale del cd, che verrà pubblicato solo due settimane più tardi. A ulteriore conferma, l’album contiene anche un brano che può essere considerato un vero e proprio inno punk al vinile, intitolato Spin The Black Circle – Fai girare il cerchio nero.
Sebbene il testo sia apparentemente inequivocabile, con tutta una serie di versi che fanno riferimento all’ascolto col giradischi, alcuni hanno notato come ci si possa leggere anche un gioco di allusioni più o meno esplicite all’uso dell’eroina. «The needle» è sia la puntina del giradischi che l’ago della siringa. Stesso discorso si potrebbe fare per l’ambiguo “rituale del braccio ricurvo” o per l’estasi generata dall’ascolto.
Sulle pagine di Rolling Stone, tuttavia, Jon Pareles non aveva dubbi e scrisse che il brano era “l’unico inno all’ago proveniente da Seattle che non avesse a che fare con l’eroina”. Anzi, forse era la prima volta che la metafora della droga veniva usata all’inverso. In altre parole, i PJ non stavano usando la musica per parlare della droga, ma stavano usando la droga per parlare dell’ascolto della musica. A suffragare questa tesi, sul libretto, accanto alla trascrizione del testo, viene riportata un’altra “metafora inversa” che ha a che fare con le droghe. “Il Cd è come un acido cattivo”.
Spin The Black Circle suona così per errore
Un altro aneddoto relativo a Spin The Black Circle è il fatto che la sua natura di pezzo punk è in realtà frutto di un errore. Per di più, un errore generato dal mangianastri, che per una canzone che inneggia al vinile è un ulteriore segno di sfregio. Il brano suona così velocemente soltanto perché Eddie Vedder, per sbaglio, aveva riprodotto al doppio della velocità il nastro su cui il chitarrista Stone Gossard aveva inciso il demo originale del pezzo. Nella sua versione embrionale, infatti, il brano aveva un andamento mid-tempo, distante anni luce dall’irruenza punk selvaggia con cui lo conosciamo. Fu proprio Vedder che s’impuntò. Alla fine convinse i suoi compagni a suonare a quella velocità generata dal caso o forse – per chi ci crede – dal destino. Nel sue nuove vesti, il brano vincerà un Grammy: ad oggi ancora l’unico che la band abbia mai vinto.
Whipping trae spunto dall’omicidio di un medico abortista
L’altro pezzo punk del disco è un pezzo “politico”. Rispetto all’album precedente (Vs, detto “il disco contro”), Vitalogy sembra meno impegnato nel sociale. Ma in parte è soltanto perché i testi sono molto più criptici. Whipping, ad esempio, è un brano che si schiera contro i movimenti antiabortisti – sono loro quelli che nel testo “danno le frustate” dall’inglese to whip – ma per capirlo bisogna leggere ancora una volta il libretto del disco. Accanto al testo in questione, infatti, troviamo una lettera indirizzata all’allora presidente Clinton. Vedder si lamenta con sdegno di un episodio increscioso avvenuto nel marzo del ‘93. Un medico di nome David Gunn era stato ucciso da un estremista cristiano, sostenitore del movimento pro-vita, perché “colpevole” di aver praticato l’aborto nel sud degli Stati Uniti.
Il diavolo veste Grunge: Corduroy e la giacca di Eddie Vedder
Per tutto il 1992 Eddie Vedder viene spesso fotografato con indosso una semplice giacca di velluto a coste – in inglese “Corduroy”. Ma la canzone omonima non è affatto una sua celebrazione. Al contrario, si tratta di uno sfogo contro la mercificazione dell’arte e la trasformazione del fenomeno grunge in una moda di costume. Sicuramente c’è un riferimento alle sfilate di Marc Jacobs e al suo “lancio della moda grunge” (vedi il video di Sugar Kane dei Sonic Youth). Ma a ispirarla, in prima battuta, fu ancora una volta il caso.
Un giorno mentre passeggiava per strada Vedder notò una vetrina di un negozio in cui vendevano una giacca identica alla sua a un prezzo esorbitante: «Avevo comprato la mia per dodici verdoni, quella la vendevano a 650 dollari!». Per questo il brano contiene frasi di sfogo in cui il cantante dice cose come “possono comprare i miei vestiti, ma non possono indossare i miei panni”. E poi rivolgendosi direttamente ai suoi fan urla: Take my hand not my picture / Steal My T-Shirt – Prendete la mia mano, non la mia foto / Rubate la mia maglietta. O almeno questa è la versione più probabile dato che l’ultimo verso non è cantato in modo nitido. Sul libretto al posto del testo Vedder ha pubblicato in maniera provocatoria una radiografia dei suoi denti.
L’elemento satanico
Se è vero che il diavolo veste Grunge, è altrettanto vero che Vedder ha inserito una sorta di elemento satanico nel disco. Ciò non ha nulla a che vedere con lo stereotipo del satanismo storicamente legato al mondo del rock. Vitalogy dei Pearl Jam mescola in continuazione figure religiose e mitologiche sacre e profane, da Maometto a Gesù Cristo a Icaro. Nel caso della figura di Satana, si tratta della sua manifestazione nelle vesti di diavolo tentatore. Cioè, sostanzialmente, Satana è una metafora delle tentazioni. Si palesa sia in Tremor Christ, dove il diavolo “sussurra parole piacevoli” a un marinaio in preda alla tempesta, sia in Satan’s Bed, dove il diavolo torna a far penzolare le tentazioni della ricchezza e della celebrità. Ma Vedder non le accetta: “Non ho mai stretto la mano di Satana, guardate voi stessi” – canta – “Lo sapreste se l’avessi fatto, quella merda non si toglie”.
Fama, Marketing e Privacy: This Is Not For You
I temi della fama, del successo, dell’industria musicale e della violazione della privacy sono ricorrenti per tutto il disco. Not For You, ad esempio, oltre ad essere uno dei brani più potenti e significativi dell’album, rappresenta una sorta di “risveglio”. Una presa di coscienza dell’artista che si rende conto di essere diventato l’ingranaggio di un sistema: “È piccola la mia tavola, tiene posto solo per due. / Si è fatta così affollata, non riesco a fare spazio / Da dove sono arrivati? Hanno invaso la mia stanza / E tu osi dire che appartiene a te, a te… / Questa non è per te!”.
Un esempio concreto di questo risveglio sarà la battaglia legale contro Ticketmaster condotta dalla band proprio in quel periodo. L’urlo di Not For You, infatti, sembra essere rivolto soprattutto nei confronti del music business e dei suoi affaristi, piuttosto che verso i fan. La questione dell’invasione della privacy, invece, è più presente in due brani sperimentali come Pry, To e Bugs. Il primo è un piccolo bozzetto distorto in cui Vedder ripete soltanto: “P-r-i-v-a-c-y non ha prezzo per me” e poi solo “P-r-i-v-a-c-y” fino alla fine della traccia. Il secondo è un brano dissonante composto da frammenti di fisarmonica in cui il tema dell’intrusione viene rappresentato attraverso la metafora delle “cimici”: “cimici nella mia stanza/ cimici nel mio letto/ cimici nelle mie orecchie” che “mi circondano, le vedo/ le vedo decidere il mio destino”.
La trilogia dell’uomo
Il lato più intimista della band è lasciato alle cosiddette “canzoni dell’uomo”, ovvero Better Man e Nothingman, che per un certo periodo furono suonate in concerto insieme a Leatherman (unab-side di Given To Fly), come se fossero un’unica ipotetica trilogia dell’uomo. Le due canzoni contenute in Vitalogy offrono una prospettiva di genere differente. In Better Man, Vedder cerca di raccontare la prospettiva femminile, come aveva già fatto in passato con Daugther e Dissident. In questo caso è quella della madre, che non riesce a trovare un “uomo migliore” del suo patrigno. Con Nothingman, invece, il punto di vista principale è quello maschile. Nello specifico quello di un uomo che si dispera e rimugina su una separazione ormai insanabile: “Una volta divisi, non rimane più nulla da togliere / alcune parole una volta dette non possono essere rimangiate”. “Un uomo da niente, non è forse qualcosa?”
L’ultima traccia del disco cambia batterista
La canzone finale – intitolata Stupidmop oppure Hey Foxymophandlemama, That’s Me, a seconda dei crediti che si consultano – non è una canzone vera e propria. Più che altro è un esperimento sonoro strumentale con registrate sopra le voci di alcuni pazienti ricoverati in un ospedale psichiatrico. Il brano è famoso soprattutto per essere quello che segna il cambio di formazione dietro alla batteria. Fuori Dave Abbruzzese e dentro Jack Irons che resterà con la band fino al 1998. La cosa curiosa è che, già anni prima, Jack Irons era stato fondamentale nella formazione dei Pearl Jam. Fu proprio lui a mettere in contatto il nucleo originario, composto da Jeff Ament, Stone Gossard e Mike McCready – tutti di base a Seattle – con l’amico e cantante californiano Eddie Vedder, che all’epoca faceva il benzinaio a San Diego.
Il fantasma di Kurt Cobain aleggia su tutto disco
Sebbene Eddie Vedder si sia premurato di precisare che «Nulla nell’album è stato scritto direttamente su Kurt», il fantasma del leader dei Nirvana, suicidatosi nell’aprile del ’94, aleggia su tutto il disco. In particolare su due canzoni.
La prima è Last Exit che si apre con parole inquietanti come “Vite sventrate e distrutte / Guardami, mamma, mentre mi schianto” e si chiude con “lascia che il mio spirito trapassi / Questa è la mia ultima uscita”. Tuttavia, i versi più amari della canzone sono scritti solo su carta e non vengono mai cantati. Li si può leggere sulla trascrizione del libretto. C’è una frase in particolare che sembra riportare direttamente al suicidio di Cobain: “Se uno non può controllare la propria vita, sarà forse spinto a controllare la propria morte?”.
La seconda canzone è Immortality, dove il legame col suicidio di Cobain appare ancora più evidente per via di un dettaglio del testo che lascia pochi dubbi. A un certo punto si nomina “a cigarbox on the floor” – “una scatola di sigari sul pavimento”. Proprio l’oggetto che fu ritrovato accanto al corpo di Cobain dopo la sua morte (era dove teneva l’occorrente per iniettarsi l’eroina. Il resto della canzone è costellato di versi che parlano di vittime dello spettacolo pubblico, del dolore esistenziale e di una via di fuga definitiva – “Non riesco a trovare conforto a questo mondo” […] Ma c’è una botola dentro al sole. Immortalità” – fino a quell’ultimo verso sul destino dei vagabondi: “Some die just to live” – “Qualcuno muore solo per vivere”.
Articolo di Andrea Pazienza