Il nuovo album di PJ Harvey ci porta in una terra di tutti e di nessuno
“I Inside the Old Year Dying” è il decimo album in studio della songwriter inglese. Un ricco immaginario lirico e un sound particolarissimo rende questo disco un gioiellino senza tempo
Attendevo con ansia un album che mi facesse per la prima volta pronunciare con sicurezza le parole “è uno degli album dell’anno”. Certo, I Inside the Old Year Dying (Partisan / Self) è un disco che non scalerà le classifiche di vendita e dello streaming. Ma stiamo parlando di PJ Harvey, una di quelle pochissime artiste che, cambiando suono e immagine nel loro percorso artistico, rimangono nella nostra memoria associata a una granitica immagine di coerenza, perseveranza e incorruttibilità.
Tra gli anni ‘70 e gli ‘80 avremmo pensato a David Bowie, Brian Eno e David Byrne. Ma per il ventennio successivo (e oltre) prevalgono due figure artistiche femminili su tutti: PJ Harvey e probabilmente Björk.
Dopo che PJ Harvey fece uscire nel 1992 il suo strepitoso album di debutto, Dry, divenne immediatamente un’eroina di culto, amata da John Peel e Kurt Cobain, da NME e MTV. La conseguenza fu un senso di soffocamento per lei. Fuggì così dalla sua casa nel nord di Londra per trasferirsi in un modesto cottage al mare nel Dorset.
Lì prese forma il crudissimo secondo album Rid of Me, ancora più estremo e graffiante di Dry. Anche per merito del produttore più richiesto all’epoca, Steve Albini. Ma PJ Harvey è stata capace di entrare nel mainstream dei ’90 con l’album To Bring You My Love, cantare una canzone appassionata in coppia con Nick Cave, tirar fuori nel 2007 un album di scurissimo gothic folk, White Chalk, e poi urlare contro la guerra e gli orrori dell’umanità nel disco Let England Shake del 2011.
La peculiarità di PJ Harvey
Oltre alla sua più che trentennale e salda incorruttibilità, dobbiamo aggiungere una sempre crescente enigmaticità del personaggio. PJ Harvey si è maggiormente interessata più a produrre musica per teatro e TV che album da solista.
Per noi giornalisti è diventata una chimera intervistarla. Tranne pochissimi casi, come proprio di recente Laura Snapes per il Guardian, alla quale, contraddicendo quest’immagine di artista integerrima, ha confidato: «Attraverso momenti in cui mi chiedo se ho ancora la capacità di scrivere le canzoni che sogno di scrivere. E mi chiedo: “Sono ancora brava? Possiedo ancora la capacità di scrivere?”. Non lo so, ma continuerò a provarci. E di solito, se persevero, posso arrivarci. Anche se a volte mi sembra di arrampicarmi in una salita nel fango».
Per il suo decimo album in studio si è affidata ai suoi fidati collaboratori/amici di sempre, John Parish e il produttore Flood. John conosce Polly da una vita, iniziarono a collaborare quando lei si propose diciottenne, di cantare nella band di Parish, gli Automatic Dlamini. E con Flood lavora dal meraviglioso To Bring You My Love del ’95. Intanto in questi ultimi due anni, tutta o quasi la sua discografia è stata completamente ristampata con le appendici demo per ogni album, e chi ama PJ Harvey in questo periodo di “astinenza” dalle sue nuove realizzazioni, ha potuto rinverdire e approfondire anche il suo affascinante sentiero sonoro e lirico.
Un album registrato in tre settimane
I Inside the Old Year Dying non è stato un album facile da realizzare, tra le insicurezze di ripetere se stessa e il desiderio di dare la forma migliore a queste canzoni.
Per sfidare ulteriormente questa soglia di congenita autocritica, PJ Harvey ha deciso di abolire la parte demo e andare subito alla forma, suonando le canzoni come se fosse una performance mista a momenti di pura improvvisazione, cosa peraltro già esperita per il precedente The Hope Six Demolition Project.
A maggior ragione il lavoro di appoggio e limatura di Mark “Flood” Ellis e Parish è stato fondamentale, con anche la presenza di Adam Bartlett e degli attori Ben Wishaw e Colin Morgan.
Altra peculiarità: c’è la forte presenza di field recordings. Il mondo esterno entra nel disco e si crea una strana sovrapposizione con la fiction di PJ Harvey. Si crea così una terra di tutti e di nessuno.
Le canzoni di I Inside the Old Year Dying
I Inside the Old Year Dying è un lavoro mirabile. Verrebbe da pronunciare la classica frase che i critici scrivono: “Sale ascolto dopo ascolto”. Ma è vero, anche questa è una magia della musica che ogni tanto accade.
Escludendo la dissonante e marziale A Noiseless Noise, le canzoni del disco suonano a volte sognanti, intime e notturne. Come la bellissima August. In Lwonesome Tonight PJ Harvey mescola assieme, in un contesto di spazio-tempo indefinito, due differenti “king”, le figure di Gesù ed Elvis.
Sempre in una delle rare interviste concesse adesso, ad Ann Powers di NPR la songwriter ha confidato:«La vita e la morte sono una linea così sottile… Qual è il confine tra maschio e femmina, o bambino e adulto? Questo è ciò che mi interessava molto, quella soglia in cui sei in una sorta di zona d’ombra».
All Souls la avvicina invece a un’altra poetessa rock, Patti Smith. Seem an I inizia solo con piccoli rumori di fondo. Improvvisamente la chitarra entra e ha il suono di Dry. Quando prende forma il brano mi fa ricordare una versione rallentata di Sweet Birth of Truth dei The The.
A Child’s Question, July evoca un’Inghilterra antica e amori cortesi. Le liriche invece sono frutto di un lavoro durato otto anni. Nel frattempo si segnalava l’uscita di un romanzo in versi, Orlam (PJ s’immagina la vita di una bambina di nove anni nell’Inghilterra rurale), uscito anche in Italia nel 2022.
Potrebbe essere il disco più sfuggente di PJ Harvey, una sorta di musica folk senza tempo. Anche se la stessa cantautrice, sempre sul Guardian, chiosa: «Speravo decisamente di poter essere in ogni epoca e in nessuna epoca allo stesso tempo». Per un attimo ci dimentichiamo che ore sono, che giorno sia e lasciamoci trasportare in quella terra di tutti e di nessuno con il decimo album di PJ Harvey.