Allora come suona il nuovo album dei Rolling Stones dopo 18 anni?
Venerdì 20 ottobre esce “Hackney Diamonds”, il primo disco di inediti della leggendaria band dai tempi di “A Bigger Bang” (2005). L’abbiamo ascoltato in anteprima
Una quindicina di anni fa, durante un’appassionata discussione sullo stato del rock insieme ai miei compagni di band, dissi con la più profonda convinzione: “Non ci si può aspettare un nuovo album capolavoro dai Rolling Stones”. Il sottotesto era: il più grande e longevo gruppo rock, proprio perché così grande e così longevo, ha già fatto la storia, ha già dato tutto, impossibile che abbia ancora da dire la sua, artisticamente parlando.
Era un dato di fatto, una cosa persino ovvia, e andava benissimo così. Insomma, per un teenager degli anni Duemila i Rolling Stones erano sinonimo di band venerabile ma sul viale del tramonto.
Curioso constatare che anche quindici anni prima di allora la percezione generale era quella. In un’intervista rilasciata l’anno scorso a NME, Flea dei Red Hot Chili Peppers ricorda divertito un loro invito a “tirare fuori le sedie a rotelle” rivolto alla band. Era il 1994 e gli Stones erano appena sulla cinquantina. “At the time they were pioneering being an old band”, osserva brillantemente Flea. Come a dire: primi anche in quello.
Andando ancora a ritroso, è facile immaginare che altri quindici anni prima, all’epoca di Emotional Rescue, l’idea di tutti fosse più o meno la stessa: “Un nuovo album dei Rolling Stones? Cos’hanno da dire dopo Some Girls?”. Allora quand’è che gli Stones hanno iniziato a essere “vecchi”? Ma poi, lo sono mai stati davvero? Non è che i vecchi siamo noi?
Hackney Diamonds, molto più di un “ottimo ritorno” dei Rolling Stones
L’occasione per la riflessione è l’arrivo del nuovo album dei Rolling Stones, Hackney Diamonds, in uscita domani, venerdì 20 ottobre. Occasione peraltro ricca di implicazioni, visto che si tratta del primo disco di inediti da diciotto anni a questa parte (escludendo l’album di cover blues Blue & Lonesome del 2016, il precedente era A Bigger Bang del 2005: una vita fa) e anche del primo dopo la scomparsa di Charlie Watts.
Abbiamo ascoltato in anteprima le tracce di Hackey Diamonds e, per fissare un punto fermo, possiamo subito dire una cosa: l’album è molto più di un “ottimo ritorno”, come si usa dire in questi casi (genericamente con poca convinzione); è invece un disco che si ricollega a pieno diritto alla grande discografia dei Rolling Stones, sostanzialmente quella fra la fine degli anni ’60 e la fine dei ’70.
Devo quindi contraddire il me stesso di quindici anni fa? Sì e no. Gridare al capolavoro sarebbe uno sproposito, tuttavia Hackney Diamonds è un disco che colpisce inaspettatamente per la sua freschezza e per l’autentico divertimento che traspare da ogni traccia. Sì, anche in rapporto all’età media dei membri superstiti della band. Ma non solo per quello.
Una carrellata di amici vecchi e nuovi
Sul disco pesa come un macigno l’ombra della morte di Watts. Ma è più un’idea nella testa di chi ascolta che un aspetto enfatizzato dalla band, la quale non si lascia andare a facili nostalgie.
Comunque Charlie è anche letteralmente presente nel disco. Il compianto batterista ha fatto in tempo a registrare due brani, Mess It Up e Live by the Sword. Per il resto della tracklist, dietro il drumkit c’è Steve Jordan, una vecchia conoscenza visto che è già stato membro degli X-Pensive Winos, storico side project di Keith Richards.
Non è tutto. L’album si caratterizza per un approccio piuttosto collaborativo, con il coinvolgimento di diversi (graditissimi) amici vecchi e nuovi della band. Più che di veri e propri featuring come li intendiamo oggi, si tratta di ospitate più o meno informali e discrete in studio di registrazione.
Tanto per cominciare, Live by the Sword vede al basso quel Bill Wyman che fu membro della lineup originaria fino ai primi anni ’90. Un vero e proprio ritorno: è la sua prima registrazione ufficiale con la band negli ultimi trent’anni.
Nel medesimo brano e in Get Close, a sedere dietro il pianoforte è nientemeno che Elton John. Sweet Sounds Of Heaven vede presenti la voce di Lady Gaga e le tastiere di Stevie Wonder. Infine un carichissimo Paul McCartney suona il basso in Bite My Head Off.
È molto la bella la scelta di coinvolgere questi giganti più come strumentisti che come cantanti. Ciò dà alle collaborazioni una certa aura di spontaneità e divertimento da jam session: siamo molto lontani dalla dimensione commerciale del featuring. Del resto chi non vorrebbe suonare su un disco dei Rolling Stones?
Cent’anni di musica in un batter d’occhi
È notevole che un album dal sound così “classico” porti la firma di un produttore relativamente giovane e con una lunga esperienza nel pop mainstream. Nel curriculum di Andrew Watt infatti troviamo lavori per artisti come Justin Bieber, Ed Sheeran, Camila Cabello, Charli XCX, Bebe Rexha, Rita Ora, Dua Lipa, Sam Smith.
Ma non ci si lasci ingannare: la sua anima rock è certificata da comprovate credenziali. Watt ha lavorato anche con artisti come Ozzy Osbourne, Iggy Pop, Pearl Jam. Non solo: proprio insieme a Eddie Vedder fa parte degli Earthlings, il side project del frontman dei Pearl Jam.
Per chi si interrogasse sul significato del titolo Hackney Diamonds, la spiegazione è presto detta. Si tratta dell’espressione gergale con cui nello slang londinese ci si riferisce all’aspetto di una vetrina rotta per una rapina. Il quartiere di Hackney, a nordest della City, infatti è noto per l’alto tasso di criminalità comune. Dunque un ammiccamento degli Stones alle loro origini proletarie e un po’ malandrine.
A conferma della volontà dei Rolling Stones di ricollegarsi alle proprie radici con il nuovo album, Hackney Diamonds si conclude con la cover della canzone da cui partì tutto: Rolling Stone Blues di Muddy Waters, da cui notoriamente Jagger e soci presero ispirazione per il nome del gruppo. È la prima volta in oltre sessant’anni di carriera che la registrano ufficialmente.
Il brano di Muddy Waters, registrato nel 1950, a sua volta era una reinterpretazione di Catfish Blues, un blues del Delta del Mississippi nato intorno agli anni ’20. In un batter d’occhi così ci catapultano di cent’anni a ritroso nella storia della musica: da oggi alle origini degli Stones; dalle origini a Muddy Waters; da Waters al blues primigenio. Un carpiato da vertigini.
Le canzoni di Hackney Diamonds dei Rolling Stones
Ma come suona Hackney Diamonds, il nuovo album dei Rolling Stones? Passiamo in rassegna il disco, traccia per traccia.
Angry
Il lead single dell’album è anche la traccia numero 1. Il sound è fresco, da presa diretta, con tanto di “one two three four” all’inizio. Con il loro incedere dritto ed essenziale ma potente, batteria e basso sono la vera forza propulsiva del brano. È da pezzi come questo che gli AC/DC hanno tratto il carburante creativo per un’intera discografia. Un ottimo singolo di lancio, senza una sbavatura e con la giusta sfacciataggine anche erotica che traspare dal videoclip.
Get Close
Il piglio è un po’ alla Sticky Fingers: è una sorta di Sway più veloce e più groovy. Bella l’apertura con gli accordi di nona carichi di flanger. In brani come questo Mick Jagger si rivela ancora un cantante di razza: nonostante gli anni che passano, la sua voce non perde una tacca di mordente. Non è mai stato un cantante rock particolarmente virtuoso, ma l’energia rimane notevole.
Depending on You
Un brano lento dal sapore marcatamente acustico, ricco di armonie di chitarra, archi, cori. Nonostante la sua imponenza (sulle note di produzione contiamo tredici fra violinisti, violisti e violoncellisti), la sezione di archi non risulta affatto invasiva o stucchevole. Spesso i produttori si fanno prendere la mano quando hanno a disposizione ensemble del genere.
Bite My Head Off
Pezzo decisamente rock, dal piglio andante. Il basso di Paul McCartney è trascinante, distorto e molto prominente nel mix. Un sound che ci si aspetterebbe più da band alt-rock come i The Hives che da un musicista ottantenne cresciuto con ben altra musica. Dopo il secondo ritornello gli viene giustamente concesso un momento di “assolo” in cui il suono si fa ancora più distorto e rumoroso. Con questo pezzo quest’accolita di simpatici vecchietti sfodera una chicca di puro divertimento rock and roll.
Whole Wide World
Tempo andante e gusto più moderno e vicino al pop, con tanto di accenno di charleston in levare qua e là, soprattutto sul ritornello. Strofe in minore, ritornello in relativo maggiore sul classicissimo giro I-V-VI-V (la progressione di With or Without You degli U2, per intenderci). Insomma, una canzone da ABC del manuale di songwriting pop rock, ma tutto sommato non piatta. C’è anche uno degli assoli di chitarra più ispirati dell’album.
Dreamy Skies
Qui il piglio si fa un po’ country, alla Sweet Virginia, con chitarra acustica e slide, per poi assumere sfumature molto bluesy nel corso del pezzo. Una traccia di alleggerimento.
Mess It Up
Di nuovo batteria dritta e potente, in questo caso ad opera del compianto Charlie Watts. Il brano ha un qualcosa di anni ’80: nei suoni, nelle melodie, nei falsetti lascivi. Anche qui la batteria ha un portamento in levare non lontano dalla disco music. L’approccio è vagamente ballabile, una sorta di divertissement.
Live by the Sword
Qui si fa scopa: ci sono Charlie Watts e Bill Wyman, per un momento si ricompone il miracolo della formazione originaria al completo, ovviamente al netto di Brian Jones. C’è anche Elton John, il cui pianoforte aggiunge senz’altro un “drive” importante alla canzone, un blues rock andante. Nient’altro che dei grandi musicisti che si divertono ancora a fare rock and roll.
Driving Me Too Hard
Un brano forse secondario nell’economia della tracklist. Troppo semplice e monocorde, troppo ripetitivo il pur piacevole riff di chitarra. Tuttavia a livello di sound non sfigura rispetto agli altri.
Tell Me Straight
Canta Keith Richards, e dà subito un tono diverso. Anche la canzone in sé è piuttosto diversa dalle altre, con armonie che evocano un senso di mistero e sospensione. È apprezzabile che ogni tanto Mick e Keef si invertano i ruoli, alla maniera dei Clash di Train in Vain. Ma dobbiamo dire che come lead vocalist non c’è partita, vince Mick (sia Jagger che Jones). Per il resto, la canzone non è un capolavoro.
Sweet Sounds of Heaven
Il secondo singolo ufficiale dell’album vanta un’altra bella manciata di ospiti notevoli: Lady Gaga e Stevie Wonder. Il brano è un blues lento in 12/8 che si evolve con sfumature gospel esaltate proprio dai contributi dei guest (il Rhodes di Wonder, i vocalizzi di Gaga). Anche in questo caso troviamo richiami “classici” ai dischi degli Stones fra fine ’60 e inizio ’70: in un album come questo non poteva mancare un pezzo come questo. Con i suoi sette minuti e mezzo è il brano più lungo dell’album, con tanto di coda semi-improvvisata in cui si raggiunge il massimo dell’intensità.
Rolling Stone Blues
Voce, chitarra, armonica. Sound grezzo, scarno, volutamente lo-fi. È il finale “marcio” che ci sta benissimo. Bella la scelta di produzione di registrare il suono sia distorto sia “acustico” della chitarra: sembra proprio di stare in un camerino accanto a Keith e Mick prima di un concerto.