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La tristezza infinita degli Smashing Pumpkins sbarca a Lucca

L’unica data italiana della band di Billy Corgan è stato un ritorno agli anni Novanta e a quella nostalgia adolescenziale incurabile

Autore Billboard IT
  • Il8 Luglio 2024
La tristezza infinita degli Smashing Pumpkins sbarca a Lucca

Il 9 luglio 1988 gli Smashing Pumpkins tenevano il loro primo concerto in un bar di Chicago davanti a 13 persone. La loro musica era “goticheggiante e pretenziosa”, almeno stando alle parole di Billy Corgan e James Iha. Da allora sono passati 36 anni. Qualche maligno potrebbe dire che in fondo le cose non sono cambiate più di tanto, soprattutto alla luce dell’ultimo mastondontico triplo album ATUM: A Rock Opera in Three Acts. Ma in realtà, in tutto questo tempo, di musica sotto i ponti per la band delle “Zucche Spappolate” ne è passata parecchia. E anche parecchio diversa. Lo sanno bene tutti quelli che si sono radunati ieri sera a Lucca per l’unica data italiana degli Smashing Pumpkins del loro “World is a Vampire Tour”.

Del resto “Time is never time at all”. Qualunque cosa significasse, nessuno dei presenti ha mai dubitato della verità assoluta contenuta nell’incipit di Tonight Tonight, forse il brano cantato con più trasporto – insieme a 1979 e Bullet With Butterfly Wings – dei Pumpkins dei tempi d’oro. Parliamo, naturalmente, della metà degli anni ’90. Quando l’uscita di Mellon Collie and The Infinitive Sadness riuscì a raccogliere in un’unica grande famiglia disfunzionale sia gli orfani del grunge che le frange meno estreme dei metallari.

E quindi ecco che li vediamo sfilare ancora una volta, fuori e dentro dal pit. Tutti quegli ex adolescenti freaks degli anni ’90, che oggi sfoggiano capelli bianchi, stempiature e figli al seguito. Invecchiati dal tempo, ma ancora convinti che The impossible is possible tonight. Figli di un eterno fuori posto, per una sera si sono ritrovati esattamente dove avrebbero dovuto essere, poiché prescelti e marchiati. The Marked appunto, come il moniker che Corgan aveva scelto per il suo primo gruppo, di cui purtroppo non esiste testimonianza sonora alcuna.

Ma non importa. Believe in me as I believe in you.

Credere

Credere è il verbo fondamentale di questa band e di questa adunata di fan. Ancora una volta fedeli al loro mentore dell’adolescenza prolungata oltre la naturale scadenza, anche se ormai sono almeno vent’anni che non sforna un disco all’altezza dei bei tempi andati.

Legittimo, quindi, chiedersi se quello dei Pumpkins non sia ormai diventato l’ennesimo concerto di vecchie glorie del passato, falsato dall’effetto nostalgia. Potrebbe essere. Del resto, per quanto l’impegno di Corgan e soci sul palco sia lodevole, i brani in scaletta estratti da Atum (cinque in tutto) non reggono il confronto con quelli più scintillanti del passato. È dunque ragionevole porsi la domanda del che ci facci(am)o ancora qui nel 2024. O meglio, lo sarebbe se non sapessimo che la materia di cui sono fatte le migliori canzoni dei Pumpkins è la nostalgia stessa. Dal greco nostos, “ritorno a casa” e algos “dolore”, che insieme diventano “il dolore del ritorno”.

Non a un tempo o a un luogo, ma a un sentimento che vagheggia le terre desolate di un’inguaribile tristezza romantica. Una malinconia di fondo sempiterna o una melancolia patologica da cui non si guarisce mai deltutto. Se siete fan dei Pumpkins, sapete bene di cosa si tratta.

Il concerto degli Smashing Pumpkins a Lucca

Dopo l’apertura incendiaria di Tom Morello – che infiamma i vecchi cuori, rievocando Rage Against The Machine e Audioslave – i “nuovi” Pumpkins si presentano sul palco con tre quarti del gruppo originale. Al centro, il padre padrone Billy Corgan, col suo classico abito da Nosferatu. Alla destra del padre, col vestito della comunione country, il fido alleato James Iha alla chitarra. Alle loro spalle c’è il figliol prodigo Jimmy Chamberlin nascosto dietro alla batteria. Ad accompagnarli al basso c’è il figlio di Peter Hook – Jack Bates – alle tastiere e ai cori la cantautrice australiana Katie Cole. All’altra chitarra il fenomeno di TikTok – Kiki Wong – scelta tra oltre diecimila candidati. La presenza di quest’ultima non ha fatto altro che alimentare polemiche inutili e mostrare quanta misoginia sommersa ci sia ancora nel mondo del rock, soprattutto considerando che il suo ruolo non sarà poi così centrale nel corso della serata.

Così come non saranno determinanti i problemi tecnici di acustica patiti in certi settori, soprattutto all’inizio del concerto. La gente è qui principalmente per la “nostalgia” delle canzoni. Quelle che per un certo periodo hanno segnato le loro vite e al tempo stesso il firmamento dell’alternative rock. Stelle cadenti che qualcuno nel pubblico si è persino disegnato sulla testa e che, a differenza delle loro controparti astronomiche, non hanno mai smesso di brillare nel blu più profondo. Non quello dello spazio, ma quello della nostra melancolia – Mellon Collie, appunto – e della tristezza che ancora oggi ogni tanto a volte la sera ci prende e dunque forse era davvero infinita.

Fin dagli esordi il legame di Corgan con la tristezza è sempre stato intenso, se non quasi morboso. Il primo singolo pubblicato dai Pumpkins, infatti, s’intitolava proprio Tristessa. Stesso nome della protagonista dell’omonimo romanzo di Kerouac, basato su una prostituta messicana, il cui vero nome, in realtà, era Esperanza. Un dualismo quello tra tristezza e speranza che in un certo senso rappresenta la chiave di lettura dell’intera poetica Corghiana. Gli esempi durante il concerto si susseguono uno dopo l’altro. Dalla botta iniziale, tra morte e spiritualità, di Everlasting Gaze, all’allegria pop di Today – che è a tutti gli effetti un brano allegro sul suicidio – fino alle ballate felici di essere tristi come Disarrm e Mayonaise, in cui riecheggiano tutti i (ri)sentimenti di Corgan nei confronti dei propri genitori naturali, rei di averlo abbandonato da piccolo.

Il tempo non è mai tempo e la fine non è la fine

Adolescente prematuro, poiché derubato dell’infanzia (I used to be a little boy, so old in my shoes), Corgan non è mai riuscito ad abbandonare del tutto quella fase successiva della vita. L’ha cristallizzata in un anno – il 1979 – e in un brano omonimo che l’ha resa eterna e indubbiamente tra gli highlight della serata. Il trasporto emotivo del pubblico nel cantarla è totale. Non sappiamo dove riposeranno le nostre ossa quando saranno inghiottite dalla terra, ma per un breve momento siamo teletrasportati in “un tempo che non è tempo”. Quando “con i fari puntati sull’alba / eravamo sicuri che non avremmo mai visto la fine di tutto questo”.

L’altro sentimento vicino all’adolescenza, cristallizzato da Corgan in un inno irresistibile, è la “rabbia triste” e impotente. Quella sfogata nel famoso ritornello di Bullet with Butterlfy Wings, cantato a squarciagola da tutti gli astanti in un momento di catarsi collettiva: Despite all my rage / I’m still just a rat in a cage”. Rarissimo caso di un verso che, come aveva notato una volta Federico Guglielmi, rimane in rima e mantiene tutta la sua forza anche se tradotto in italiano. “Nonostante tutta la mia rabbia / sono ancora soltanto un topo in gabbia”. Rabbia che viene (man)tenuta insieme alla tristezza anche nei due brani conclusivi. Ci sono l’urlo finale di Cherub Rock e soprattutto Zero. Un brano che è diventato quasi un brand, nonché la perfetta chiusura del concerto e di un cerchio con cui Corgan fa la sua dichiarazione d’amore più esplicita alla tristezza:

Intoxicated with my madness / I’m in love with my sadness.

Più di questo davvero non gli potevamo chiedere.

“La tristezza durerà per sempre”, diceva Van Gogh prima di lasciarsi morire. Anche quella degli Smashing Pumpkins, ma per fortuna continua a suonare da Dio e a farci (ri)vivere.

Articolo di Andrea Pazienza