“The Bends” dei Radiohead compie trent’anni
Dieci curiosità sull’ultimo disco “normale” della band di Oxford, che usciva il 13 marzo 1995

Copertina dell'album "The Bends" dei Radiohead
Pubblicato il 13 marzo del 1995, The Bends, il secondo “difficile” disco dei Radiohead era – a detta di molti – l’ultimo album “veramente” rock della band di Oxford. Si tratta, infatti, dell’album di mezzo tra l’esordio ancora acerbo di Pablo Honey (1993), sostenuto dal successo strepitoso del singolo Creep, e lo spartiacque di OK Computer (1997), che avrebbe portato a un graduale abbandono delle chitarre in favore della musica elettronica di Kid A (2000), Amnesiac (2001) e tutti gli album ibridi a venire.
The Bends dei Radiohead, invece, è un disco ancora fieramente ancorato al suono della chitarra, o meglio delle chitarre – al plurale – visto che si gioca quasi tutto sull’interazione tra la chitarra solista di Jonny Greenwood, quella d’accompagnamento acustico di Thom Yorke e quella che fa da sfondo e textures a tutto a quanto, affidata agli effetti di Ed O’Brien. Il tutto coadiuvato dalla sezione ritmica solida e precisa di Colin Greenwood al basso e Phil Selway alla batteria.
A dispetto di una critica europea entusiasta, The Bends dei Radiohead non ebbe subito il successo sperato, soprattutto negli USA, dove raggiunse soltanto la posizione n. 88 della classifica di Billboard, mentre in UK arrivò al quarto posto, aprendo la terza via al Britpop. Col tempo l’incremento delle vendite e lo status di classico sarebbero comunque arrivati anche al di là dell’Atlantico, dopo alcune apparizioni televisive importanti e i due tour di supporto ai R.E.M. e Alanis Morissette.
10 curiosità su The Bends dei Radiohead
1. Il titolo dell’album si riferisce a una malattia
Nello specifico, il termine “the bends” indica i sintomi della malattia da decompressione che può colpire i sommozzatori quando questi risalgono troppo velocemente da un’immersione. I Radiohead hanno scelto il termine “the bends” appositamente come metafora negativa della fama improvvisa raggiunta grazie al successo planetario di Creep, da sempre croce e delizia del gruppo. L’intero disco abbonda di metafore mediche, con cui il gruppo ha rappresentato il forte disagio vissuto in quel periodo: in Bones parla esplicitamente di dolori alle ossa – spalle e polsi, ginocchia e schiena – oltre che di antidolorifici e Prozac; in Planet Telex “tutto è rotto”; in High and Dry “le viscere cadono a pezzi”; e in Fake Plastic Trees si fa riferimento alla chirurgia estetica. Ma la metafora ospedaliera più evidente e significativa è quella contenuta nel primo singolo My Iron Lung, a cui è dedicato il prossimo punto.
2. My Iron Lung è la metafora di Creep
My Iron Lung è la prima canzone uscita come anticipazione dell’album sotto forma di EP. In ambito medico, il termine “polmone d’acciaio” indica una vecchia strumentazione usata nelle terapie intensive per sopperire alle carenze polmonari dei pazienti. I medici sdraiavano i pazienti all’interno di enormi cilindri di metallo, permettendo loro di continuare a respirare “normalmente”. Si tratta di una metafora che esprime tutta l’insofferenza e la frustrazione della band nei confronti di Creep : la canzone che li ha tenuti in vita, ma al tempo stesso li ha anche paralizzati.
3. La copertina del disco sancisce l’inizio della storica collaborazione col grafico Stanley Donwood
Anche la foto di copertina del disco viene letteralmente fuori da un ospedale. È stato lo stesso grafico Stanley Donwood – autore di tutte le future copertine dei Radiohead dal 1995 in avanti – a raccontare l’accaduto. L’idea iniziale era quella di fotografare un vero polmone d’acciaio, ma, una volta intrufolatosi in ospedale e visto da vicino l’oggetto, si rese conto che non era niente di particolarmente eccitante: “Era una roba grigia che giaceva inutilizzata in una stanza buia”. Ad attirare la sua attenzione fu invece un manichino per la rianimazione (di quelli usati per esercitarsi nella respirazione bocca a bocca), che poi finirà sulla copertina definitiva che conosciamo. Come ha dichiarato lo stesso Downwood, l’espressione facciale sembrava quella di “un androide che scopre per la prima volta le sensazioni di estasi e agonia, simultaneamente” e pertanto rappresentava la descrizione perfetta della nuova musica dei Radiohead.
4. Le sessioni di registrazione dell’album sono state particolarmente tormentate
Schiacciata dalle forti pressioni della casa discografica, che voleva sfruttare il successo di Creep, la band decise di affidarsi a un nuovo produttore più rilassato: John Leckie, amato dal gruppo soprattutto per il suo lavoro sul disco post-punk/art-rock dei Magazine Real Life (1978). Ma come ha dichiarato lo stesso Leckie, dopo nove settimane di intenso lavoro presso i RAK Studios di Londra ”ogni canzone era rischio” e la band stava per avere quello che Yorke definì “un fottuto crollo totale”. Pertanto le sessioni vennero interrotte, la data di pubblicazione dell’album venne posticipata e la band andò in tour per tornare a respirare. La strategia funziona e il gruppo comincia a suonare e a dare forma alle nuove canzoni direttamente dal vivo.
5. Fake Plastic Trees e l’incontro salvifico con Jeff Buckley
Thom Yorke ha vissuto un percorso travagliato con una delle canzoni migliori dell’album, Fake Plastic Trees, poiché inizialmente faticava a trovare la quadra tra la musica e la sua voce. Ha descritto la prima incarnazione del brano come troppo roboante e pomposa – “come November Rain dei Guns N’ Roses”, e per lui non era affatto un complimento. A sbloccare la situazione fu un concerto di Jeff Buckley al Garage di Londra, durante il quale Yorke ebbe una specie di epifania: “Jeff Buckley mi ha dato la sicurezza di cantare in falsetto”, confesserà nel 1998. Difatti dopo il concerto Yorke tornò in studio, cantò due volte il brano usando il falsetto e scoppiò a piangere: adesso non aveva più alcuna paura di far sentire la parte più vulnerabile della sua voce.
6. L’odio nei confronti di High and Dry e dei suoi imitatori
High and Dry è una canzone che è stata scritta da un giovane Thom Yorke quando ancora militava nella sua vecchia band, gli Headless Chickens. “Era una vecchia demo che pensavamo fosse una schifezza, sai, troppo alla Rod Stewart”, aveva dichiarato a Billboard nel 1996. Si tratta indubbiamente di una delle canzoni più “zuccherose” dell’album, se non dell’intera discografia dei Radiohead, e infatti Thom Yorke avrebbe preferito non includerla, ma alla fine la casa discografica ebbe la meglio. Il suo stesso autore l’ha ripudiata, e molti l’hanno considerata l’antesignana dei Coldplay e di un certo Britpop “leggerino”, tipico di band come Travis, Elbow e Snow Patrol, tutte poco apprezzate dal leader dei Radiohead.
7. Sulk parla di una sparatoria, ma il suo testo è stato autocensurato
Si tratta di una delle canzoni più sottovalutate del disco e anche delle meno note, soprattutto perché non viene più suonata dal vivo dal 1995. Yorke ha spiegato che la canzone parla di una vecchia sparatoria del 1987 – nota come il massacro di Hungerford – che causò la morte di diciassette persone, incluso l’assassino, che si suicidò subito dopo la strage. Ma questo è quasi impossibile da desumere dal testo. Pare, infatti, che Yorke abbia deciso di tagliare il suo verso più esplicito -“just shoot your gun” – per evitare qualsiasi possibile associazione con il suicidio di Kurt Cobain. In questo modo il brano sembra più una canzone d’amore non corrisposto: “a volte bruci”, urla Thom Yorke. E per citare Kenneth Partridge su queste stesse pagine: “a volte scrivi di massacri nello stesso modo in cui scrivi di crepacuore”.
8. Black Star e il tema della relazione amorosa e del suicidio
In realtà il tema della relazione amorosa è un’altra sorta di metafora sotterranea che collega i vari brani, seppur in maniera meno “densa” rispetto alla simbologia medico-sanitaria. In questa luce oscura Black Star è probabilmente la cosa più vicina a una vera e propria canzone d’amore esplicito, ma è anche quella su cui aleggia sinistramente il tema del suicidio per via dei due versi finali ripetuti: “This is killing me”.
9. Il video di Just è considerato il più misterioso della storia
Il successo dell’album è legato anche ai videoclip iconici della band. Tra questi, uno dei più memorabili è sicuramente quello di Just, un brano in cui Yorke e Greenwood fanno a gara a chi inserisce più accordi nella stessa canzone. Il regista Jamie Thraves ha rivelato che aveva già scritto una sceneggiatura di dieci pagine per un suo cortometraggio che avrebbe girato di lì a poco. Ma subito dopo aver ascoltato il brano capì che la canzone della band e la sua sceneggiatura erano destinate a stare insieme. Nella sua storia del video musicale, Saul Austerlitz descrive Just come il miglior esempio di video misterioso.
10. Street Spirit (Fade Out) è ispirata al “realismo magico” di un romanzo nigeriano
L’ultima canzone del disco – Street Spirit (Fade Out) – è una sorta di incantesimo maledetto capace di trasportare l’ascoltatore in un’altra dimensione. Probabilmente la stessa da cui proviene il brano che, a detta di Thom Yorke, non è stato scritto da lui, ma si è scritto da solo. Originariamente il pezzo s’intitolava Three-Headed Spirit e a ispirarlo è stato un romanzo dello scrittore nigeriano Ben Okri, intitolato La via della fame. La canzone è una riflessione sul senso della vita e della morte. Tutti siamo destinati a svanire (“fade out”), come canta Yorke nel ritornello.
Articolo di Andrea Pazienza