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I Vampire Weekend sono diventati grandi con “Only God Was Above Us”

Un disco complesso, ricco di raffinatezze. Tutti gli indizi ci fanno pensare quasi più a un album del leader Ezra Koenig che ci lancia anche un bel messaggio: nonostante i tempi bui, impariamo a perdonare.

Autore Tommaso Toma
  • Il6 Aprile 2024
I Vampire Weekend sono diventati grandi con “Only God Was Above Us”

Ve li ricordate nel 2006? Appena usciti dalla Columbia University con i Ioro gilet in maglia, le giacche blu navy o quei capospalla morbidi dai colori tenui, dal kaki al nocciola? Sembravano dei giovani modelli dello stile preppy. All’epoca, invece, le band UK e USA come Arctic Monkeys, Franz Ferdinand, Yeah Yeah Yeahs o Gossip, indossavano pelle nera o PVC, per riallacciare una connessione con il rock’n’roll più sporco. E anche musicalmente i Vampire Weekend quando debuttarono col primo album sembravano fuori asse spazio temporale, con quel melodismo chitarristico dotto e intelligente, tra citazioni afro beat, gli accordi semplici ma efficaci della scuola scozzese anni ’80 e le astrusità à la Talking Heads.

Sono passati ormai quasi 20 anni, altri tre album e, nel frattempo, hanno perso per strada anche l’ottimo Rostam Batmanglij (ma non del tutto, nella nuova canzone The Surfer c’è anche la sua firma). Gli album dei Vampire Weekend sono diventati così sempre più un affare di Ezra che ha ancor più affinato le sue doti compositive. Nel caso del loro nuovo e quinto disco Only God Was Above Us il frontman si fa affiancare da un team di produttori eterogenei come il navigato David Fridmann dei Mercury Rev e il richiestissimo Ariel Rechtshaid.

Il filo rosso con il passato, ma anche un’inedita maturità

In Only God Was Above Us aleggiano le nuvole scure del tempo che stiamo vivendo. Il disco addirittura si apre con una distorsione di chitarra e un semplicissimo “Fuck the world”, anche se sussurrato a bassa voce (“You said it quiet /No one could hear you /No one but me”). Questo è un album che si rivela essere uno dei più belli della cinquina realizzata ad oggi dai Vampire Weekend.

Forse non avrà quella spontaneità melodica degli esordi o le finte ruvidezze di Contra e neanche la caleidoscopica ricchezza di suoni dell’ultimo lavoro che risaliva al 2019. Ma da Father of the Bride si porta appresso quella sensibilità jazz, le note suonate al contrabbasso (notevole in Classical) e l’uso degli ottoni che rendono la grana sonora della band ancor più newyorkese, evocando le foto in bianco e nero. Ma non quelle dei tempi del CBGB’S, ma quelle dei musicisti be bop scattate da William Claxton o Herman Leonard.

Le canzoni

In Capricorn il giro armonico del pianoforte ricorda la magnifica Step di Modern Vampires in the City (altra foto in bianco e nero di NYC in copertina…). E il filo rosso con il passato c’è ancora, di un materiale raffinatissimo, come accade in Connect: l’inizio è un puro esercizio al piano di qualcuno che ama Bach alla follia, poi entra una batteria che ricorda Mansard Roof, il piano poi si dimentica del maestro barocco e si lancia in dissonanti nonsense da provocare un autentico spaesamento all’ascoltatore. Un capolavoro.

Gen X Cops inizia con un vortice sonoro che addirittura può ricordare No Tears dei Tuxedomoon ma la voce zuccherina e soul di Koenig, con la complicità di un’arpa ci rimanda ai tempi di A-Punk o di Cousins. In Mary Boone c’è un sample da Back to Life (However Do You Want Me) dei by Soul II Soul, inaspettato e piacevolissimo su una struttura di archi e voci bianche che fanno da contrappunto.

L’album si chiude a sorpresa con un brano lungo ben otto minuti. Hope, a tratti inquietante, ma epica, non assomiglia a qualsiasi altra cosa registrata dai Vampire Weekend. Il testo parla di perdono, un sentimento che, per una band non più giovanissima come loro, si confà e che tutti noi – comprese le nuove generazioni – dovremmo imparare ad accogliere e trasmettere più spesso. Bentornati Vampiri del pop più raffinato in circolazione.

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