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Alessandro Cortini: musica per immagini mentali e non

Il tastierista dei Nine Inch Nails si è esibito ieri sera a Milano con un set audiovisivo in un gioco caravaggesco di luci e ombre

Autore Claudio Biazzetti
  • Il5 Dicembre 2023
Alessandro Cortini: musica per immagini mentali e non

Alessandro Cortini, foto di Riaccado Trudi Diotallevi per Inner_Space

La sera prima del live di Alessandro Cortini al San Fedele, ho guardato un documentario a casa. È uno dei più recenti di Werner Herzog, Fireball: Visitors from Darker Worlds del 2020, e parla di meteoriti. Sia da un punto di vista scientifico che da uno antropologico. Un po’ di cose già le sapevo al riguardo. Altre invece, mi erano del tutto nuove. Tipo che esistono anche dei micrometeoriti delle dimensioni di granelli di sabbia che cadono costantemente e ovunque sulla terra. Oppure che in generale possono trasportare sui pianeti su cui cadono anche molecole organiche complesse come gli zuccheri.

Bisogna essere chiari: è un documentario di Herzog, quindi nessun dubbio che sia un capolavoro come tutti gli altri. Ma se dobbiamo proprio trovare una pecca, di cui avevo sentore mentre lo guardavo e di cui mi sono definitivamente convinto nel mezzo del set di Cortini, è che la musica stonava un po’ con il tutto. Un po’ troppo didascalica. A tratti così pretenziosamente epica che finiva per sortire l’effetto opposto. Quasi comico perché abbinata alla voce fuori campo di quello che, in fin dei conti, è un David Attemborough con un pesantissimo accento bavarese.

Perché ci ho pensato proprio mentre il musicista noto al mondo come “il tastierista dei Nine Inch Nails” stava spippolando dal vivo synth, sequencer ed effetti, seduto in mezzo alla folla del piccolo auditorium di via Hoepli, Milano? I motivi sono più di uno. Tanto per cominciare, l’intera oretta del set audiovisivo è un unico piano sequenza di riprese macro ravvicinatissime di superfici minerali molto scure. Molto spesso di ossidiana.

Scorrendo lentamente, è come se la camera rivelasse, in un gioco caravaggesco di luci e ombre, i solchi, gli intarsi, le venature dei reticoli cristallini. Il tutto, modellato in tempo reale dai giganteschi droni sotterranei di Cortini. Dallo scalpellare meticoloso degli arpeggi, e poi rifinito dai venti marziani soffiati dai supertweeter dell’Acusmonium Sator. Ovvero l’imponente impianto a cornici concentriche che circonda e rende unico l’Auditorium.

Improvvisi bagliori di luce accecante, che ipersaturano l’immagine proprio come quando i meteoriti si disintegrano nell’impatto con l’atmosfera, sono le transizioni che l’artista visivo Marco Ciceri ha ideato per alternare i vari movimenti del set di Alessandro Cortini. La continuità dell’unico racconto in piano sequenza viene mantenuta. E oltretutto, così facendo, si dà anche una fedele trasposizione visiva a un disco, l’ultimo del musicista bolognese, che fa appunto dell’inseguimento tra luci e ombre sonore la sua cifra stilistica. Scuro Chiaro.

Prima che le lunghezze d’onda dilatate di Cortini, dopo un signal flow di strumenti comprensibile solo a lui, facessero tremare l’edificio con l’aiuto di subwoofer titanici, la sala sold out ha avuto modo di gustarsi una delle pietre miliari della musica acusmatica, Tremblement de terre très doux. Composto da François Bayle nel 1978, riassume in una mezz’ora scarsa il concetto di proiezione del suono nello spazio tridimensionale. Slegata quindi da un ordinario sistema di ascolto stereo. Limitato oltretutto anche nello spettro di frequenze. Le biglie che rimbalzano tra di loro o su superfici che paiono marmoree sono un po’ il fil rouge dell’opera, scritta dall’uomo che ha brevettato l’acusmonium e interpretata, in questo caso, da Giovanni Cospito. Che ha contribuito all’installazione dell’esemplare nell’Auditorium gestito dai Gesuiti e usato per la rassegna Inner_Spaces.

Tremblement è stato il giusto riscaldamento, per l’orecchio e per l’impianto, per il live di un musicista straordinario come Alessandro Cortini. Unico italiano nella Rock and Roll Hall of Fame, formato come chitarrista negli Stati Uniti. Audizionato e assunto come tastierista dei Nine Inch Nails nonostante all’epoca (parliamo dei primi Duemila) i synth fossero ancora un terreno perlopiù inesplorato per il nostro.

Vent’anni dopo, un disco solista dopo l’altro, l’impressione è che la sua affinità narrativa allo storytelling visivo sia sempre più evidente. Il passaggio alle colonne sonore a questo punto è praticamente ovvio, oltre che sperato. Se per qualche inspiegabile motivo, dovesse chiamarmi Herzog per chiedermi un consiglio sul prossimo compositore a cui affidare le musiche del prossimo documentario, un nome al volo ce l’avrei.

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