Interviste

Capo Plaza: «Ferite sono le mie vittorie e sconfitte». L’intervista

In questo suo nuovo album Luca D’Orso si guarda in profondità: «Tengo molto ai rapporti e tendo a dare agli altri fin troppo. Mi è rimasta una certa insicurezza di fondo, però dovremmo essere tutti più fieri delle nostre ferite, di questo sono profondamente convinto. Le ferite diventano anche dei tratti distintivi»

Autore Silvia Danielli
  • Il3 Maggio 2024
Capo Plaza: «Ferite sono le mie vittorie e sconfitte». L’intervista

Capo Plaza, foto di Alan Gelati

Per questa intervista io e Capo Plaza siamo seduti a un tavolino nel piano inferiore di una peniche, una barca trasformata in abitazione, il tema da cui partiamo non è semplice, ma è proprio quello delle Ferite che danno il titolo al suo nuovo album. Un lavoro decisamente vario dove si alternano brani più conscious a pezzi da club, fino ad altri dove Plaza si mette totalmente in gioco riuscendo ad aprirsi quasi a a sfumature pop che ben si adattano a voci come quella di Mahmood o di Annalisa.

58 dischi di platino e numerose collaborazioni internazionali tra cui Gunna, Lil Tjay, A Boogie Wit da Hoodie, Russ Millions, Tion Wayne e le superstar francesi Aya Nakamura e Ninho. Ho trascorso una giornata a Parigi con lui. Da questa intervista capisco che Capo Plaza è maturato tanto ed è sempre il Giovane Fuoriclasse che abbiamo conosciuto nel 2017. Con la sua visione della vita ben precisa, sapendo che cosa è importante e che cosa lo sia molto meno. Con i suoi valori e con gli amici e le persone care selezionatissime. E con una passione sempre in testa che lo porta a tormentarsi finché non raggiunge il risultato sperato: la musica.

Foto di Alan Gelati

L’intervista a Capo Plaza su “Ferite”, il suo nuovo album

Già la prima volta che ti avevo intervistato mi avevi detto che l’aspetto peggiore del successo è il sentirsi più soli, circondati da persone che se ne approfittano. Le cicatrici si riferiscono a queste delusioni?
Ci tengo molto ai rapporti e tendo a dare agli altri fin troppo. Le ferite diventano anche dei tratti distintivi. Se sono così è perché sono rimasto scottato nella vita, però ho imparato a reagire, sono diventato più maturo, e ho capito – in fondo – come andare avanti. Mi è rimasta una certa insicurezza di fondo. Però dovremmo essere tutti più fieri delle nostre ferite, di questo sono profondamente convinto.

Sei sempre stato così fin da piccolo?
Certo, è Salerno, la mia città d’origine, ad avermi insegnato a mantenere un determinato atteggiamento. A cercare di rimanere umile con i miei valori nonostante possa trovarmi in un ambiente piuttosto viscido, come quello musicale.

Mi faresti un esempio concreto di una ferita che ti ha segnato?
Lasciare casa da solo a diciotto anni, senza la famiglia e gli amici. E poi tutte le relazioni che sono andate storte. Io non rimugino mai troppo. Se una cosa è finita, è finita. In tutto questo album rifletto sul concetto di vittoria e sconfitta, anzi lo avrei intitolato proprio così: Vittoria e sconfitta. Poi alla fine ho pensato che Ferite avesse un significato più ampio. Ma quello che voglio trasmettere è che ogni conquista porta con sé un lato negativo per chiunque, anche per il presidente degli Stati Uniti. La vita è difficile ed è bella perché ha tante anime, se no si sarebbe chiamata passeggiata.

Nella title track dici di avere “poche mani amiche”: di chi sono?
La mia famiglia, la mia ragazza, i pochi amici che ho. Dopo tutte le scottature che ho avuto, posso aspettarmi tutto da tutti, però so che quei 5 o 6 sono veri. Non è che ci sentiamo tutti i giorni però so che se ho bisogno loro ci sono. Non è che sono la mia gang, quella l’avevo fino ai 20 anni, poi le cose cambiano.

Nell’ambiente del rap in molti mi hanno detto che è difficile essere davvero amici: anche per te?
Certo. Non penso che gli altri rapper vengano a confidarsi con me, avranno altri amici, è normale: siamo anche in competizione. In maniera sana, per quanto mi riguarda. Poi scegliamo di fare dei feat. insieme senza problemi.

Ascolta “Ferite”, il nuovo album di Capo Plaza

Che cosa è fondamentale per Capo Plaza quando chiede un feat?
Il lato umano. Certo, anche quello artistico, è ovvio, ma che ci sia un buon feeling con un artista è più che prioritario.

Nella tua carriera hai sempre cercato di lanciare diversi emergenti: credi che qualcuno sia stato poco riconoscente?
Forse non tutti si ricordano di quello che ho fatto, ma alla fine è da più di 8 anni che porto avanti il gioco ad alti livelli. Comunque, ho imparato a farmi scivolare addosso tutto, anche i commenti negativi.

Da parte di colleghi?
Ma no, non più di tanto. Non sono certo alla ricerca di dissing, cerco di andare d’accordo con le persone ma non posso piacere a tutti. Per i feat di questo disco ho cercato comunque di sperimentare parecchio: per esempio c’è anche Annalisa. E anche Mahmood.

Con lui avevi già collaborato e trovo che le vostre vocalità e i vostri stili si sposino particolarmente bene.
È un grande amante della cultura hip hop e r’n’b’ e ha una voce angelica. Lui era un mio fan e io non lo sapevo e viceversa: ci siamo trovati alla perfezione. Così abbiamo collaborato l’uno nel disco dell’altro. Sono molto fiero dei pezzi di quel tipo, come con quello con Annalisa, perché 4 o 5 anni fa non sarei stato in grado di farli. Hanno una sonorità rap cantata che cercavo da tempo e che finalmente ho raggiunto. Poi ho voluto chiamare anche due degli emergenti che preferisco come Artie 5ive e Tony Boy perché credo molto in loro.

E poi ci sono i feat. con i rapper più famosi.
Certo, come Lazza e Tedua con cui ci stimiamo, artisticamente parlando, da anni. E da lì nasce anche l’ottimo rapporto umano di cui parlavo prima.

E poi c’è anche Anna, per un pezzo particolarmente riuscito.
Abbiamo cercato delle sonorità più hip hop e più da club rispetto a Vetri neri, perché entrambi amiamo la cultura rap  americanissima. Anche se il primo era andato straordinariamente bene l’estate scorsa. Ora noi volevamo mostrare anche un lato diverso.

Foto di Alan Gelati

Che cosa ti fa cambiare idea su un pezzo che hai giù chiuso? Mi dai l’idea di essere piuttosto tormentato e non essere mai soddisfatto.
Metto sempre tutto in discussione, dalla strofa al beat. Per cui per chiudere questo disco ho impiegato più di un anno e mezzo. Io parlo molto con il beat proprio: se non mi dice niente, si ferma tutto lì! A volte l’ispirazione per trovarlo parte da me, altre volte da Ava. Ci piace molto sperimentare, e di solito se mi viene una bella idea e la chiudo in fretta va tutto bene. Se rimango nell’incertezza di solito butto la traccia. Comunque, all’inizio tornare in studio è più difficile, poi passa il tempo e si acquisisce più consapevolezza. A un certo punto arriva l’idea che ci siano 16/17 tracce buone per il disco.

Quante ne avevi preparate per quest’album?
Almeno 150 pezzi che non usciranno mai!

Sono nate tutte a Milano? E tu lì non frequenti molto la vita notturna o sbaglio?
Certo, sono nate tutto nello studio mio e di Ava. Ho una vita molto tranquilla: vado in palestra, in studio, ceno con la mia ragazza e viaggiamo molto, senza postare tutto sui social. Ho trovato il mio equilibrio, voglio solo produrre musica e spero che la gente ne colga il significato.

Vuoi arrivare a essere conosciuto in Europa?
Certo. Già avevo suonato in diverse città europee e penso proprio ci torneremo il prossimo inverno. All’estero è pieno di comunità di italiani: per esempio, fuori dall’Europa, mi ero esibito a Toronto e a Montreal, in Canada, ed erano venuti in tanti a vedermi! È giusto portare un po’ della nostra musica ai connazionali. Ma anche agli altri, perché un sacco di persone mi hanno detto che conoscevano Mahmood e i Maneskin, giusto per fare due nomi.

E l’America la senti fattibile?
Non me lo pongo come obiettivo né mi pongo limiti, penso che se arriverà sarà solo un bene. Non avrei mai detto nemmeno di essere arrivato dove sono ora. Sicuramente voglio alzare l’asticella.

Leggi l’intervista completa sul numero speciale “Capo Plaza e il rap in Europa” prenotabile a questo link.

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