Irama su Gianluca Grignani, libertà d’espressione e collaborazioni. L’intervista
Il cantante ha pubblicato un album per la prima volta ricco di feat, dove racconta tutta la sua voglia di sperimentare e di muoversi liberamente attraverso i generi musicali
Il giorno in cui ho smesso di pensare. Un titolo provocatorio e liberatorio allo stesso tempo, quello scelto da Irama per il suo nuovo progetto discografico, uscito lo scorso venerdì 25 febbraio per Atlantic Records/Warner Music Italy.
Nel disco, composto da 13 tracce, per la prima volta il cantante si apre alle collaborazioni in un suo progetto. Lo fa chiamando artisti molto diversi tra loro, ma che rappresentano perfettamente le diverse sfumature della scena italiana e che riescono a raccontare la voglia di sperimentare di Irama. Nel disco, infatti, troviamo: Rkomi, Guè, Lazza. E ancora: Epoque, Sfera Ebbasta e Willy William, featuring internazionale del progetto.
Ma non solo. Perché ne Il giorno in cui ho smesso di pensare non mancano i producer di livello, da Mace a Mr. Naisgai (storico produttore di Rauw Alejandro), da Merk & Kremont a Shablo, direttore artistico del progetto.
Qui un’anticipazione dell’intervista a Irama che sarà disponibile integralmente sul prossimo numero di Billboard Italia.
L’anticipazione della nostra intervista a Irama
Al release party per l’album c’era anche Gianluca Grignani. Sia prima che dopo l’esibizione a Sanremo, tra fake news e commenti negativi, tu lo hai sempre difeso e devo dirti che il vostro duetto è stato uno dei più belli e spontanei.
Capita spesso che arrivino delle critiche, perché abbiamo sempre cercato di essere fuori dagli schemi. Io ho firmato il mio primo contratto a 17 anni e più cresco più capisco che le cose vengono spesso capite con il tempo, soprattutto in Italia. C’è sempre una prima reazione quasi di paura alla diversità. Il tempo però insegna. Per me salire sul palco con Gianluca è stato un onore e un momento storico, perché abbiamo presentato una delle canzoni più belle al mondo. È qualcosa che un giorno racconterò ai miei figli. L’ho ringraziato trecento volte e lui mi ha anche mandato affanculo (ride), continuava a dirmi “basta ringraziarmi”. C’è un aneddoto che non ho raccontato a nessuno: dopo l’esibizione a Sanremo mi ha regalato il suo cappello, un gesto bellissimo di un artista gigante. Queste sono le cose che fanno solo i grandi.
Il titolo del tuo nuovo progetto, Il giorno in cui ho smesso di pensare, ha molteplici chiavi di lettura. Qual è la tua?
Penso di averlo spiegato bene nel monologo scritto insieme a Giuseppe e Fabio Banfo, drammaturgo fortissimo con cui mi è capitato di lavorare spesso. Lì esordisco dicendo: “Non ho mai avuto paura di schiantarmi”. Queste parole racchiudono perfettamente il concetto del disco, molto eclettico e con tanti mondi dentro. È un progetto che non ha paura e ha le palle di fare musica, fregandosene degli schemi. Non voglio usare la parola sperimentale, perché la odio, voglio solo dire che è un disco fatto davvero di musica.
Anch’io l’ho interpretato così. E a proposito di “eclettico”, quando abbiamo fatto la cover story per l’uscita di Crepe, hai detto: “Essere eclettici è difficile ma è la scelta più rock che si possa fare”. Penso valga anche per quest’album.
È la cosa più fuori dagli schemi che ci sia oggi, in una società dove per forza devi essere quello o quell’altro, dove si deve avere sempre un’etichetta, sia a livello sociale, personale e artistico, altrimenti non ci si sente rappresentati. Per me invece è la cosa meno libera che esista al mondo. Avere un’etichetta addosso non significa essere liberi, ma che qualcuno ti sta dicendo chi sei o chi pensa che tu sia. Io non ne ho bisogno. Nella musica cerco sempre di rappresentare al meglio questo concetto, come a Sanremo, dove sono arrivato con un pezzo completamente diverso da La genesi del tuo colore. Il principio della musica è la libertà d’espressione, e se questa non c’è diventa business, e a me non frega davvero nulla.
Le collaborazioni ne Il giorno in cui ho messo di pensare
Per la prima volta ti sei aperto alle collaborazioni all’interno di un tuo progetto. Da dov’è nata quest’esigenza? Come hai capito che era il momento giusto?
È arrivata dopo un po’ di dischi e di momenti della mia vita in cui ho imparato tanto. Ho iniziato facendone poche, ma negli ultimi anni ho conosciuto nuovi artisti e amici che secondo me rappresentano una scena diversa, che stiamo creando. Per la prima volta mi rendo conto che in Italia stiamo riuscendo a creare una sorta di portale tra il pop e l’urban, qualcosa che non esisteva prima. Prima, tornando al discorso delle etichette, ce ne erano di più: cantante pop, rap, urban. Invece noi delle nuove generazioni siamo talmente ibridi, ricchi di culture diverse, con tanta fame e voglia di imparare che si è creato un nuovo mondo, che non puoi catalogare.
Secondo me era giusto fortificare ancora di più questa mia scelta di non catalogarmi con delle collaborazioni con artisti che per me rispecchiavano questo concetto. Ma non solo, perché ci sono tanti artisti con cui sono cresciuto, come Guè, e artisti internazionali, come Willy William, Victor Martinez, musicista di C. Tangana, e Naisgai.
Il tuo avvicinamento ad un mondo più latin è stato graduale. Penso a Nera, che è stata una vera e propria hit nel 2018, e a Crepe, con pezzi come la stessa title track, Arrogante e Mediterranea. Io, comunque, apprezzo molto anche l’Irama di Ovunque sarai, quello più introspettivo.
Il lato emotivo nel disco non manca, mi piace bilanciare, e infatti ci sono brani come Goodbye, Yo Quiero Amarte e Fragile, che si avvicinano, con sfumature differenti, al mondo di Ovunque sarai. Volevo che ci fosse anche questo mio lato più emotivo. Parlando del brano sanremese, l’ho scritto in un periodo brutto a livello personale e non riuscivo a scrivere e a fare musica. Mi trovavo in Salento, in una villa, e mi staccai da tutti e andai sul tetto. Lì, senza tanti orpelli e giri di parole, ho iniziato a scrivere guardando il cielo, mentre pensavo ad una persona che non c’è più.
Mi ricordo che scesi e dissi proprio a Giulio (Nenna, ndr): “Non mi frega niente se farà schifo, ho bisogno di registrare questa cosa”. Così l’ho registrata e c’era lì Naicok, che aveva una storia vicina a livello personale, che si commosse e lì ho capito che era una canzone vera e sincera.
Parliamo di 5 gocce con Rkomi, uno dei brani più belli del disco, dove collabori con un artista con cui hai già lavorato per un altro pezzo fortissimo, Luna piena. C’è una bella intesa tra voi due.
Il brano è nato con Naisgai. Ricordo che lui era a Miami e volevamo incontrarci, ma per problemi legati alla pandemia l’abbiamo dovuto fare virtualmente. Abbiamo creato un modo per connetterci in tempo reale e abbiamo fatto questo pezzo divertendoci, eravamo davvero presi bene. Lui poi è un produttore che mi piace particolarmente, con queste sonorità anni ’80 che ha portato nel mondo di Rauw Alejandro e in generale in quello latino, che si distacca dal classico reggaeton e gli dà un tiro più interessante.
In un secondo momento ho scritto il testo, alle 6 del mattino in casa mia con Giuseppe, e gli ho detto: “Qui sarebbe perfetto Mirko. Potrebbe essere un ritorno su qualcosa di differente rispetto a quello che abbiamo già fatto”. Lui è un liricista bravissimo, ci siamo sentiti ed è stato subito entusiasta del pezzo. In uno-due giorni mi ha dato la sua parte, ci siamo confrontati ed è nata 5 gocce, che ha segnato questo ritorno tra noi due.