“Typhoons”, il rock dei Royal Blood nel segno del groove: «Il French Touch ci ha sempre ispirato»
Il duo composto da Mike Kerr e Ben Thatcher ha appena pubblicato il nuovo album, che mostra un approccio più ballabile che in passato ma senza sconfessare il sound che li ha resi celebri
Diciamolo pure senza giri di parole: sin dai loro primi lavori, Mike Kerr e Ben Thatcher (cantante-bassista e batterista dei Royal Blood) sono riusciti in un piccolo miracolo musicale. Ovvero quello di portare una ventata di autentica novità nell’altrimenti stagnante scenario rock mainstream degli anni ‘10/20. L’approccio di Kerr al basso elettrico (capace di sopperire all’assenza di chitarre e di creare, da solo, un potente sound) è qualcosa di davvero unico, oltre che di tecnicamente impegnativo. Un songwriting affilatissimo e la solidità delle parti di batteria di Thatcher fanno il resto.
Rispetto ai primi due album, più puramente rock, con il nuovo disco Typhoons, uscito ieri, vincono la scommessa della contaminazione con un approccio “dance” senza screditare né la parte heavy né quella del groove, anzi scoprendo una freschezza tutta nuova. Il talentuoso Mike ci ha spiega questa brillante alchimia sonora: trovate l’intervista completa sul numero di aprile di Billboard Italia.
Come avete detto diverse volte, e come è evidente all’ascolto delle tracce, questo album ha una qualità più ballabile rispetto ai vostri precedenti lavori. Cosa vi ha portato verso questa nuova trama sonora?
La voglia di fare qualcosa che fosse un passo in avanti. Dopo otto anni in cui abbiamo suonato così tanto dal vivo i nostri primi due album, volevamo uscire un po’ dalla nostra comfort zone e provare qualcosa di “fresco”, di evolverci. L’idea di ripetere di nuovo la stessa formula non è molto attraente per noi.
Fra le vostre prime influenze citate spesso artisti come Daft Punk, Justice, Philippe Zdar, che immagino abbiano avuto un’influenza su questi pezzi. In che modo il French Touch si abbina così bene al vostro stile?
È sempre stato parte della nostra musica. In questo disco gli diamo semplicemente più visibilità. Anche canzoni come Figure It Out e Lights Out avevano richiami ad esso, ma in questo caso ci siamo buttati a capofitto. È uno stile che si combina molto bene col nostro perché noi siamo una sezione ritmica, e la musica dance è costruita essenzialmente su pattern ritmici.
Avete prodotto voi stessi quasi tutto l’album. Come mai questa scelta?
Non è stato deciso a tavolino. Ci siamo trovati a registrare nuovo materiale durante il lockdown e quelle che avevamo inizialmente inteso come demo sono finite per essere le registrazioni definitive. In questo senso abbiamo “accidentalmente” prodotto gran parte di queste canzoni per conto nostro. Avevamo le idee molto chiare su ciò che stavamo facendo e su come volevamo che suonasse, per cui non sarebbe stato opportuno avere qualcun altro in questo processo.
Riguardo alla canzone Typhoons hai detto che “è stata uno di quei momenti speciali in cui il processo non ricorda per niente le consuete modalità di scrittura”. In che senso?
A volte le canzoni ti si manifestano così, senza sforzi. Scrivere canzoni può essere un’esperienza anche stressante, ti senti sotto pressione per via delle aspettative degli altri. Ma nel caso di Typhoons non c’è stata traccia di quei pensieri: ci divertivamo e basta. Ed è così che vengono fuori le idee migliori. È anche la canzone che abbiamo scritto più velocemente, ci abbiamo messo cinque giorni.
In generale come hai sviluppato il tuo peculiare approccio al basso elettrico?
Per necessità. Essendo un duo, la prima cosa che ti chiedi è se il sound sia abbastanza robusto. Per cui ho dovuto ragionare su un modo per riempire tutti quei piccoli “buchi” che sono normali in una band di due elementi. Ho capito subito che non avrei suonato la chitarra, perché mi sembrava che mancassero le frequenze basse. Per cui mi sono orientato verso il basso.
Con le vostre canzoni avete dato nuova linfa ai pezzi rock basati su riff, una cosa che era un po’ scomparsa negli ultimi dieci anni o giù di lì. Quali sono per te alcuni “maestri” del riff?
Jimmy Page, Tom Morello, Jack White, Josh Homme, Matt Bellamy. Ognuno di loro ha avuto un’enorme influenza su di me nella scrittura di riff, pur nella loro grande diversità di stili, soprattutto agli esordi. Poi, con il passare del tempo, trovi il tuo stile personale.