Napoli (non più) segreta: breve storia della scena underground partenopea
Dagli Showmen di James Senese ai Nu Genea, le proposte più notevoli della musica “made in Naples” hanno avuto come comuni denominatori il recupero creativo della tradizione e un approccio contaminato
Lasciatici alle spalle – si spera definitivamente – gli anni delle restrizioni pandemiche, siamo tornati ad affollare piazze, strade, locali e corridoi delle scuole, per riversarvi il bisogno di vivere insieme la musica. Una delle colonne sonore per questa socialità ritrovata, attesa, carica non solo di empatia ed emozioni ma anche di rabbia repressa, denuncia, risentimento e dolore, è la canzone napoletana, che è tornata a sprigionare la propria potenza universale e senza tempo.
Geolier, alfiere del rinascimento partenopeo
“E mo tu vien vicin famm sentr addor / Mentre facimm ammor, mentre passn l’or / Aro passo mo e m sann primm manc passav / Pecchè nun c stev nient nemmanc na speranza / Chillu cumpagn ten o figlio / Chill’at nun s’arrepiglj”.
Sono parole, o forse dovremmo dire versi, che Geolier, uno degli alfieri dell’attuale rinascimento partenopeo, canta in un vero e proprio nuovo classico della canzone napoletana come Vogl sul a te.
Contengono un gioco quasi cinematografico fra interno ed esterno, fra il tempo della vita vissuta e quello sospeso del sesso. Un gioco da cantare non distanziati. Vi ricorre l’immaginario di Gomorra, il romanzo e la serie TV, che La Niña ci ha indicato come un possibile inizio di questo prepotente ritorno di una Napoli moderna e urban.
La poesia dei quartieri di Napoli
Nel 2005, qualche mese prima del libro di Saviano, era anche uscita una raccolta intitolata Napolizm: a Fresh Collection of Neapolitan Rap, la stessa che portava alla ribalta Clementino, poco prima dell’album d’esordio Napolimanicomio.
In tutte queste nuove declinazioni del patrimonio musicale e culturale napoletano è protagonista la poesia dei quartieri, con il suo binomio fra passione amorosa e crudezza della vita. Una narrazione così potente travalica i generi musicali, unendo presente e passato, alto e basso, eleganza e scurrilità, tradizione e futuro. “O’ Rione”, che si chiami Secondigliano o Scampia, Miano o Piscinola, contiene e sdogana tutto ciò che abbia qualcosa di autentico e di vero da esprimere.
Mai come oggi, dopo avere abitato, coesistendo a portata di reel, nel mondo bidimensionale e atemporale dei social, le espressioni di questo immaginario si sovrappongono, straripando nella realtà. E dunque cose come La Tammurriata a Mergellina di Rosanna Cassini, il dub degli Almamegretta, ‘O Mar For, i 99 Posse, Solo Infatuazione di Anthony, e altri accostamenti impensabili fino a ieri, convivono, rendendo la marginalità un volano di energia creativa.
La festa e il groove
Tutto ciò è coerente anche con l’estetica postmoderna, che obbedisce alla logica della composizione di opposti e del divertimento. Non a caso un’altra dimensione melting pot a Napoli è la festa. Un tempo e un luogo in cui l’immaginario delle canzoni è declinato come musica da ballo, anche elettronica.
Dalla tarantella rigenerata di Tempo di Vendemmia di Musicanova al funky citazionista di Gigi Testa, dall’Autostrada Galattica dei Modula a Pino D’Angiò, la festa a Napoli è una questione di groove. Ed è anche un fatto tradizionale e identitario legato proprio al ritmo.
Basti pensare al titolo di una delle serate più interessanti della scena rave italiana degli anni ‘90, “Ecchereccà”, cioè “e che c’è qua”, in inglese si direbbe “what the fuck”, organizzata dal collettivo United Tribes. Era la frase in dialetto napoletano che dovevano pronunciare le persone arrivando all’ingresso. Ci suonavano nomi cari agli appassionati di techno come Marco Carola e Rino Morello, che hanno portato molto in alto il livello dell’elettronica made in Naples fra gli anni ’90 e i primi Duemila.
Inaspettatamente gli stessi Almamegretta hanno pubblicato sul proprio SoundCloud un’esibizione live a “Ecchereccà” del ‘94, raccontando così la serata: «Una sorta di rave che divenne a quei tempi un appuntamento imperdibile. Qualcosa di nuovo e incandescente, che diede alla città di Napoli un respiro internazionale notevole».
Il bisogno di riappropriarsi delle radici
L’underground napoletano degli anni ’90 è stato un crocevia di circuiti in cui la realtà dei centri sociali incontrava quella dei rave ed entrambe incorporavano l’eredità del decennio precedente, come dimostrano le collaborazioni fra Bisca e 99 Posse e fra questi ultimi e Almamegretta. Sono progetti nati e cresciuti in una Napoli “dei margini”, per poi diffondersi a livello nazionale, talora oltre confine.
Anche in questo caso la tradizione era un ingrediente basilare, non solo in quanto poesia dei quartieri e del riscatto individuale e sociale ma anche in quanto sfida agli stereotipi sulla cultura napoletana, cui nemmeno il rap di ultima generazione, o la trap neomelodica di Liberato, si sono in tempi più recenti sottratti.
Oggi come allora, il bisogno è quello di riappropriarsi delle radici e ripulirle dalle banalità da cartolina accumulatesi nel tempo. Di qui la fusione fra tradizione e avanguardia e l’idea di spazzare via la sabbia dei luoghi comuni.
Questa attitudine affonda le proprie radici nel Naples Power anni ‘70. Mentre altrove i giovani rifiutavano il passato, quelli napoletani lo facevano rivivere restituendolo alla sua autenticità. Che si parli di musica da ballo, o canzone vernacolare reinventata, l’approccio non cambia.
Pino Daniele e Napoli
Proviamo a cercare esempi dell’uno e dell’altro processo creativo nel repertorio di uno dei personaggi chiave, forse il più importante in assoluto, dell’identità musicale napoletana moderna: l’indimenticabile Pino Daniele. Quanno Chiove, tra i suoi brani più amati, è una canzone tratta da Nero a Metà, il disco con cui Pino inaugurava gli anni ’80 e agguantava il primo vero successo dopo una lunga gavetta.
La canzone si misura con un archetipo della cultura napoletana, civiltà nata di mare e contadina. La pioggia è acqua “che’nfonne e va”, che lava scorre via, verso il mare, dopo essere caduta dall’alto, autorevole e pura più di ogni altra materia. Il testo ha la stessa alternanza cinematografica di interni ed esterni che abbiamo visto nei canti urbani di ultima generazione. E sempre di rioni si tratta. Della misteriosa figura protagonista, che va a lavorare col sorriso “ma po’ nun ride cchiù”, si sentono i passi giù per le scale, si vedono gli incontri in strada intrisi di “scuorno”, vergogna (“ma passanno quaccheduno / votta l’uocchie e se ne va”). Non resta che attendere la pioggia e la sua azione purificatrice.
Una suggestiva interpretazione, la più diffusa ormai, vuole che il pezzo sia dedicato a una prostituta e che l’acqua lavi via il pregiudizio insito negli sguardi fugaci e morbosi dei passanti. Sul secondo filone Pino Daniele è invece l’inventore del termine (e relativa canzone) Tarumbò, che è insieme tarantella e blues, cioè ballo e narrazione. Nel termine si ritrovano una filosofia di vita e un atteggiamento verso l’arte, che rivendicano verità e indipendenza. È come se un decennio di esperienze di Naples Power trovasse un suo simbolico punto di sintesi.
Guardare avanti, salvaguardando l’unicità di Napoli
In una città traumatizzata dal colera, galvanizzata dalle gesta calcistiche di Sormani e Altafini, toccata in modo problematico e dispersivo dal boom economico, si trattava di tradurre in creatività il desiderio di guardare avanti e salvaguardando l’unicità delle proprie bellezze.
È il fertile terreno in cui la Nuova Compagnia di Canto Popolare di Roberto De Simone indica un approccio inedito alla canzone napoletana, basato su ritmo e teatralità, mentre il collettivo E’ Zezi inventa una formula di combat folk operaio, meno lontano di quanto si possa pensare dal Bennato militante dei primi tre dischi, la cui influenza si allunga fino ai 99 Posse.
Qui, come in tutte le altre città italiane, le radici si trovano nel beat, negli Showmen di James Senese, destinato a diventare grande amico e collaboratore di Pino Daniele, mentre l’altro fondatore, Mario Musella, è il “nero a metà” cui allude il titolo dell’album omonimo.
Alan Sorrenti
Va invece riconosciuto ad Alan Sorrenti il merito di avere per primo esplicitato l’internazionalità potenzialmente insita nel Naples Power, traghettandola fino agli anni ’80 di Figli delle Stelle.
Lui e la sorella Jenny, il cui album Suspiro è una delle prime apparizioni in studio di Pino Daniele, incidevano per la EMI-Harvest. Con Alan, sulla Via Lattea fra il Festival di Licola e uno yacht ancorato a Miami, hanno suonato musicisti del calibro di Francis Monkman, Dave Jackson, Jean Luc Ponty, Jay Gradon e David Foster. Nei suoi dischi si coglie la continuità fra il jazz rock del Naples Power e il funky del decennio successivo. Una continuità all’insegna del ritmo forse più interessante di certe rigide classificazioni che poco si addicono all’anima partenopea.
Passato, presente e futuro: i Nu Genea
È un po’ questo lo spirito retro-futuristico della Napoli dei Nu Genea, di cui ci ha parlato Lucio Aquilina e dove un Elio D’Anna può trasferire dai dischi degli Osanna ad album come Sfinge di Enzo Carella e Musica è di Enzo Ciervo (cantante della prima band di Pino Daniele) le proprie competenze. Dove il talento percussivo di un Tony Esposito va dall’etno-jazz di Rosso Napoletano alla disco tribale di Tamburo. Dove viene incisa e commercializzata per un mercato locale tutta una produzione di musica library da party, dalla quale emergono gemme come l’album Neapolitan Sound di Gennaro Mambelli.
Una Napoli segreta, ma anche desiderosa di lasciarsi scoprire. Almeno in parte.