Polyphia sì, Polyphia no
Nella nuova puntata di Soundcheck, un’opinione sincera su vizi e virtù della band strumentale più chiacchierata degli ultimi anni
C’erano una volta Steve Vai, Joe Satriani, Yngwie Malmsteen. E ancora: Frank Zappa, Jeff Beck, Carlos Santana. Artisti (perlopiù chitarristi, ma non solo) capaci di raggiungere un pubblico globale con musiche basate su brani strumentali e su livelli tecnici che sfociavano volentieri nello shredding. Miracoli destinati a non ripetersi più? La risposta è un secco no: con gli straordinari risultati delle loro canzoni, i texani Polyphia hanno dimostrato che è ancora possibile combinare musica strumentale, virtuosismo, ottimo songwriting e successo mainstream. In questa puntata di Soundcheck provo a dare opinioni sincere ed esaustive sulla band di Tim Henson, Scott LePage, Clay Gober e Clay Aeschliman, cercando di cogliere i segreti del “caso Polyphia”.
Non solo musica per musicisti
Dalla hit G.O.A.T. del 2018 in poi, la loro ascesa non si è più fermata, andando ben al di là dei limiti (anche commerciali) della “musica per musicisti”. Infatti, senza temere le opinioni dei critici, i Polyphia scrivono canzoni con un approccio ultra-contemporaneo e musicalmente onnivoro: immaginatevi Kanye West che produce un pezzo dei BTS scritto da Steve Vai.
Proprio quest’ultimo, shredder per antonomasia, è presente in featuring in Ego Death (singolo tratto dall’album Remember That You Will Die del 2022), in una sorta di ideale passaggio di testimone fra la vecchia e la nuova guardia.
«I chitarristi oggi potrebbero pensare di non avere speranze perché quel tipo di musica (rock strumentale, ndr) non è più popolare», osservava lo stesso Vai quando lo intervistai per l’uscita del suo notevole album Inviolate. «Ma si tratta di una contraddizione in termini. Il motivo per cui era popolare allora era che quegli artisti proponevano buona musica. Quando uscì Surfing with the Alien di Joe Satriani si pensò che fosse un buon periodo per la musica strumentale: no, Joe lo rese tale grazie alla sua musica. Il mio messaggio ai giovani chitarristi è: fate ciò che volete voi, siete voi che renderete quel tipo di musica di nuovo popolare».
Band come i Polyphia sembrano la perfetta incarnazione del ragionamento di Steve Vai. In altre parole, siamo di fronte a una nuova generazione di brillanti artisti capaci di riportare in auge un certo tipo di fusion/crossover strumentale non perché questo sia di moda (tutt’altro) ma in virtù di una musica essenzialmente godibile e di una disinvoltura nel parlare i linguaggi del proprio tempo (leggi: social). Nella categoria peraltro può rientrare comodamente anche il virtuoso delle sei corde Matteo Mancuso, che meriterà un approfondimento a sé.
Il fattore YouTube
C’è un fil rouge che lega buona parte dei protagonisti della nuova wave chitarristico-strumentale. Non è genericamente Spotify, che semmai favorisce altri tipi di musica, né quel tritacarne comunicativo e musicale che è TikTok. Il fattore comune è YouTube.
Sulla principale piattaforma di streaming video da sempre esistono creator capaci di intercettare con successo la vasta nicchia di chitarristi, bassisti, batteristi eccetera. Anche con numeri impressionanti: il canale YouTube del bassista italiano Davie504 conta oltre 13 milioni di iscritti.
Spesso il virtuosismo di questi musicisti/youtuber è associato a una marcata vena umoristica (è il caso di Rob Scallon, Jared Dines, Stevie T, Charles Berthoud, oltre allo stesso Davie), altre volte a un intento didattico (Scott Devine, Paul Davids, Adam Neely, e non possiamo non citare Rick Beato, anche se per molti versi rappresenta un unicum). Per arrivare ai musicisti “puri”: quelli che usano YouTube come una sorta di piattaforma di distribuzione della propria musica e come palco virtuale. È il caso del già citato Mancuso, della brillante Yvette Young e soprattutto del campione indiscusso di questo tipo di decorso chitarristico: Ichika Nito.
Insomma, in questi anni YouTube è stato – e continua ad essere – la culla più adeguata per lo sviluppo di vere e proprie community di “strumentofili” che lì si possono avvicinare, annusare, contare, influenzare reciprocamente. Cercando, magari, di fare il grande salto nel mondo reale. Attenzione: non è una cosa da tutti. Un conto è suonare nella propria cameretta, un altro è farlo davanti a migliaia di spettatori. Stevie T ha ammesso di aver rinunciato all’ultimo a un tour mondiale con i DragonForce per via di attacchi di panico.
Dai linguaggi social all’approccio post-genere
Ecco: non si capisce niente dei Polyphia se non si masticano i linguaggi dei social, e in particolare di YouTube. Non è un caso che i Polyphia siano amici per la pelle del suddetto Ichika Nito: vengono dallo stesso giro virtuale. Anche se non hanno mai fatto i creator in senso stretto, è quasi come se fossero degli youtuber che ce l’hanno fatta nel mondo reale.
Non per niente la loro comunicazione visual e i loro videoclip sono sempre estremamente curati, catchy e in linea con i gusti di un pubblico giovane, cresciuto a pane e meme. «Non c’è niente di peggio che vedere una delle tue band preferite pubblicare video mediocri», mi confermava Tim Henson in un’intervista ai Polyphia pubblicata sul numero di novembre/dicembre 2022 di Billboard Italia. «Allora tanto vale sentire il pezzo in streaming e basta!».
Dalla passione per i linguaggi social all’approccio musicalmente onnivoro nelle canzoni il passo è breve: si tratta di uno degli aspetti più criticati quando si parla dei Polyphia. Riassumeva bene il punto un utente di YouTube, che commentando il video di LIT scriveva: “Suono di chitarra: shred metal. Melodie: progressive. Beat: hip hop. Effetti sonori: elettronica. Look: K-pop”.
«Ci piace molto la varietà», continuava Tim Henson nell’intervista ai Polyphia. «Quindi potrebbe anche succedere l’opposto: potremmo fare un pezzo dal sound K-pop ma con un video molto metal. Sono tutte cose intercambiabili per noi». Apriti cielo.
I Polyphia come gruppo metal?
Arriviamo a uno dei nodi difficili da sciogliere nelle opinioni che riguardano i Polyphia: loro mossero i primi passi ormai un decennio fa come band essenzialmente metal, ma lo sono ancora? A parte le semplificazioni (Tim Henson: «Io penso che siamo fottutamente metal!»), il chitarrista Scott LePage mi faceva un’osservazione da non dimenticare: «C’è una parola che non posso sentire, ed è “progressive”. È vero che nella nostra musica ci sono elementi di progressive, ma la struttura delle canzoni è tutt’altro che prog, anzi è praticamente pop». Aggiungerei: non solo la struttura ma spesso anche arrangiamenti e refrain melodici.
Molte canzoni dei Polyphia non stonerebbero come musica di sottofondo di un negozio Zara o H&M, eppure riescono ad appassionare anche i metallari. Com’è possibile? Nella discografia recente dei Polyphia ci sono pochi pezzi metal in senso stretto, persino poche canzoni con chitarre fortemente distorte. Ma c’è comunque qualcosa di fondamentalmente “heavy” in questa scrittura e in questi suoni, che ha a che fare per esempio con l’estremo controllo richiesto da parti di chitarra come quelle di Tim e Scott, con i fill micidiali del batterista Clay Aeschliman o con l’attacco affilatissimo del bassista Clay Gober (che con il suo “hybrid picking” applicato al basso sta a sua volta ampliando le possibilità espressive del proprio strumento, anche se più in sordina rispetto agli altri membri della band).
È un peccato aver perso il loro concerto all’Alcatraz di Milano a maggio 2023. Sarebbe stato una bella occasione non solo per giudicare la resa live delle canzoni ma anche per vedere da vicino il pubblico dei Polyphia, che si sovrappone solo in parte a quello dei metallari canonicamente intesi.
L’approccio “Frankenstein”
La musica dei Polyphia è complessa e accessibile a tutti. Non è una contraddizione in termini, poiché i ragazzi hanno perfettamente chiaro il modo in cui separare i termini dell’equazione: complessa nell’esecuzione, accessibile nell’orecchiabilità e nei suoni. Proprio come fecero i vari Joe Satriani e Steve Vai al loro tempo, per l’appunto.
Non è tanto per questo che i Polyphia vengono criticati nelle opinioni di molti, quanto piuttosto per quell’estrema frammentazione post-genere di cui parlavamo sopra. Questa si riflette in un approccio di produzione a dir poco non convenzionale: «In genere io e Scott mandiamo versioni dei brani ridotte all’osso a tanti diversi producer che ci lavorano liberamente», spiega Tim Henson dei Polyphia. «Dopodiché scegliamo le parti che ci piacciono di più dalle varie versioni e le mettiamo insieme in una sorta di versione Frankenstein».
E ancora, parlando dell’assolo di Steve Vai in Ego Death: «Abbiamo preso la sua traccia, l’abbiamo suddivisa e riassemblata un po’. Così lui ha detto: “Bello, ma non credo che questo mi qualifichi come featuring, mi basta essere accreditato come co-autore”. Abbiamo pensato: “Oddio, e adesso?”. Ma poi ha capito quanto ci tenessimo e ce l’ha lasciato fare». Stravolgere un solo di chitarra di Steve Vai non è esattamente ciò che a un normale produttore rock verrebbe in mente di fare.
Non siamo troppo lontani dal modus operandi immaginato dallo youtuber Ben Levin in un esilarante video intitolato My Polyphia Riff Generator. E qui arriviamo al nocciolo delle opinioni critiche su Tim Henson e i Polyphia in quanto band: va bene lo shredding ma ci sono troppa carne al fuoco, troppe influenze senza comun denominatore, troppo algido “cut and paste”. Troppo Frankenstein.
Le opinioni sui Polyphia
Ma allora: Polyphia sì o Polyphia no? Io dico sì. C’entra certamente l’entusiasmo nel constatare l’enorme successo mondiale raccolto da una band di virtuosi. C’entra anche il fatto che Tim Henson e Scott LePage dei Polyphia siano diventati un modello, una fonte d’ispirazione per milioni di giovani chitarristi.
Ma soprattutto i Polyphia stanno portando avanti con successo una musica radicalmente nuova. Per di più in un ambito spesso dato per spacciato come quello di ascendenza rock. Lo dico senza esagerare: la prima volta che ho ascoltato G.O.A.T. è stata l’ultima volta che ho avuto la sensazione epidermica di essere a contatto con qualcosa di diverso da tutto quello che avessi sentito prima. Nel mondo rock è un sentimento ormai raro e, in quanto tale, prezioso.
Non sono tanto l’aspetto tecnico o la componente catchy delle canzoni dei Polyphia ad appassionarmi. Non presi singolarmente, perlomeno. Anche perché le loro tecniche chitarristiche in sé non sono inedite, semmai lo è il modo in cui le assemblano in intricati fraseggi. È invece quello spirito “da ricercatori”, la voglia di spingere più in là i limiti del proprio strumento, che eleva i Polyphia come band allo stesso grado degli illustri predecessori che nominavamo all’inizio.
Al di là delle opinioni che si possono avere sui Polyphia, una cosa è certa: band e musicisti così compaiono una volta in una generazione, trattiamoli con cura.