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C’è musica oltre il nuovo album dei Pearl Jam

“Dark Matter”, in uscita il 19 aprile, non è bello, non è brutto, è solo un disco medio dei PJ post-grunge, da prendere come viene. L’abbiamo ascoltato in anteprima

Autore Federico Durante
  • Il29 Marzo 2024
C’è musica oltre il nuovo album dei Pearl Jam

Pearl Jam (foto di Danny Clinch)

Nel 2020 salutammo con entusiasmo l’uscita di Gigaton. Ci stava, era pur sempre il primo disco di inediti di Eddie Vedder e soci da sette anni a quella parte. OItretutto lasciava davvero intravedere uno slancio verso il futuro. “Un lavoro che sintetizza in maniera convincente le tante direzioni musicali seguite in quasi trent’anni di discografia, ma anche con uno sguardo verso il nuovo”, concludevamo. Per prudenza o per realismo, non ci sentiamo di recensire con la stessa passione Dark Matter, il nuovo album dei Pearl Jam in uscita il 19 aprile.

Il punto è che il disco (il dodicesimo lavoro di inediti della loro ormai lunga carriera) non è particolarmente memorabile e neanche del tutto insignificante. È soltanto un album medio dei Pearl Jam post-grunge, in linea con quell’approccio alt-rock che è stato la loro cifra stilistica negli ultimi 25 anni. Quindi prendetelo come viene: se vi piace quel sound ci sono buone probabilità che lo apprezzerete, altrimenti c’è il rischio che vi lasci sostanzialmente indifferenti.

La genesi di Dark Matter dei Pearl Jam

Facciamo un passo indietro. I Pearl Jam non sono solo una fenomenale macchina da live ma hanno ancora un ottimo ascendente sulle classifiche. Per dire: Gigaton debuttò in Italia alla prima posizione della classifica degli album e alla #5 della Billboard 200. Un risultato eccezionale. Certo, allora c’era il fattore “comeback” di cui sopra, ma è probabile che anche il nuovo album Dark Matter spinga i Pearl Jam nelle fasce alte delle classifiche.

Il disco peraltro è prodotto dal prezzemolino Andrew Watt, producer che ha saputo muoversi con successo – e soprattutto con pari credibilità – sia nel super pop (Justin Bieber, Dua Lipa, Miley Cyrus, Bruno Mars, Shawn Mendes, Lady Gaga) che nel rock di pezzi da 90 come Ozzy Osbourne, Metallica, Rolling Stones (l’abbiamo trovato nel recente, e notevole, Hackney Diamonds). Lo status di top producer è stato suggellato nel 2021, quando vinse il Grammy Award come Producer of the Year. Ormai il nome di Watt è un vero e proprio bollino di qualità, un po’ come – mutatis mutandis – quello di Jack Antonoff.

Per la creazione del nuovo album, l’anno scorso i Pearl Jam si sono ritirati con Watt negli Shangri-La Studios di Rick Rubin a Malibu. In un impeto di ispirazione, Dark Matter è nato nel giro di tre settimane. Eddie Vedder ha detto: «Stiamo ancora cercando modi per comunicare. Ci teniamo comunque a pubblicare qualcosa che sia significativo. Senza esagerare, penso che questo sia il nostro migliore lavoro». Seriamente, Eddie? Meglio di Ten? Bugiardo…

Pearl Jam - Dark Matter - copertina album
L’artwork di Dark Matter presenta opere di light painting dell’artista Alexandr Gnezdilov. Anche ogni lettera visibile sulla copertina è stata catturata individualmente e scritta a mano a mezz’aria con una torcia appositamente progettata. Il nuovo album dei Pearl Jam (via Monkeywrench Records / Republic Records) è disponibile in preorder sullo store di Universal Music Italia in cinque varianti: CD standard, CD Deluxe, LP standard, LP in versione esclusiva per lo store di Universal e uno speciale bundle che comprende il vinile standard e il 45 giri della title track

Le canzoni del nuovo album dei Pearl Jam

Piccola nota a margine. Nelle note di produzione del disco è accreditato come co-autore delle canzoni (non si capisce bene se tutte o solo alcune) e come session man chitarrista e tastierista quel Josh Klinghoffer che per un decennio ha sostituito John Frusciante nei Red Hot Chili Peppers. Siamo felici di ritrovarlo – anche se dietro le quinte – come componente essenziale di un altro progetto rock così importante.

Forse è anche merito di Klinghoffer se Dark Matter dei Pearl Jam ha un sound così fresco, vitalistico. Una simile modalità da registrazione in presa diretta, “da live”, ha sempre affascinato i produttori, talvolta con esiti eccellenti (si vedano i primi Van Halen o gli stessi RHCP di Blood Sugar Sex Magik). Il problema è che se mancano le grandi canzoni il risultato sarà mediocre, da sala prove.

L’ispirazione non manca, soprattutto nella prima metà dell’album, ma di rado si sale al di sopra della soglia della medietà. Con l’iniziale Scared of Fear si percepisce subito quel sound indie rock grezzo, quasi lo-fi, che caratterizza la loro musica da un quarto di secolo. Il riff principale non è male, un po’ alla Rolling Stones di Can’t You Hear Me Knocking, ma più veloce. Nella successiva React, Respond succede qualcosa di più interessante. Le strofe hanno un piglio alla Rage Against The Machine in versione punk, con un riff semplice ma ipnotico, mentre il ritornello si ricollega allo stile crudo, furioso, di certi pezzi di No Code.

In Wreckage invece fanno capolino i Pearl Jam più melodici e “puliti”, in stile Daughter e Better Man, per intenderci. Pezzo non memorabile, con una coda inutilmente lunga, ma si fa ascoltare con piacere. Sembra quasi che i PJ diano il meglio di sé quando non indulgono nell’indie rock fine a se stesso. Poi è la volta di Dark Matter. È stata giusta la scelta di farne il lead single e la title track: è il pezzo forte del disco, piuttosto “heavy” per certi aspetti, ha un’immediatezza che funziona e anche una buona varietà in termini di idee creative. Won’t Tell è diversa, più “brillante” (diciamo pure pop) rispetto alle altre canzoni, complice l’escamotage dell’ostinato melodico sulla parte strumentale delle strofe. Non un pezzo particolarmente audace, ma dal respiro molto ampio.

Dopodiché i momenti degni di nota si diradano. Upper Hand parte con una schitarrata con delay vagamente in stile Where the Streets Have No Name degli U2. Segue strofa piena di hendrixismi. Ma nel complesso rimane un brano un po’ insipido, anche se la coda accelerata aggiunge una certa intensità. Di Waiting for Stevie sono belli soprattutto la performance di batteria (ci sono un po’ di fill notevoli) e soprattutto l’outro, che non c’entra niente col resto del pezzo ma è molto atmosferico e suggestivo. Viene da chiedersi perché non abbiano costruito un intero brano su quello spunto.

In Something Special torna la modalità melodica su un pezzo terzinato andante, anche se sottotono e persino stucchevole tanto nella musica quanto nel testo (“And when it gets fucked up / You need a helping hand do it yourself / You’re not the type to need a man / But if you find one he better / Know you’re damned special”).

Got to Give ha un certo respiro armonico grazie agli accordi aperti, anche se non è nulla di straordinario. Si tratta semplicemente di un accordo di Mi maggiore spostato avanti e indietro sulla tastiera per suonare anche il Si e il La, lasciando risuonare le prime due corde. Un trucchetto che tutti abbiamo provato al primo anno di chitarra.

Ci sono poi brani su cui c’è francamente poco da dire. Come la conclusiva Setting Sun o Running, una sorta di “filller”, con un riff punkeggiante piuttosto noioso senza alcuna variazione dinamica (giusto sul finale – anche qui – si raggiunge una certa notevole intensità). Che gli vogliamo dire? Dal vivo una cosa del genere può anche funzionare bene. A proposito, i Pearl Jam hanno annunciato un tour americano ed europeo di 35 date, ma al momento non compare l’Italia.

Infine, una piccola osservazione impopolare. Mike McCready ha sempre avuto nomea di grande chitarrista, ma francamente non è mai più stato all’altezza della performance di Ten, con tutto quel suo prevedibile linguaggio chitarristico di fondamentale matrice blues rock (pentatonica e “boomer bends” come se piovesse). Uno stile che – oggi ce ne rendiamo conto pienamente – era già datato all’epoca dei loro esordi.

Pearl Jam - nuovo album Dark Matter - recensione - foto di Danny Clinch - 2
Pearl Jam (foto di Danny Clinch)

Le tematiche dei brani

Eddie Vedder rimane, oltre che un performer fenomenale, anche un buon lyricist. Tuttavia non si capisce bene che direzione voglia imprimere ai testi del disco.

Alcuni versi notevoli includono Scared of Fear (“I think you’re hurting yourself / Just to hurt me”, sottile) e React, Respond (“You are hurting / And it’s so magnificent”, poi c’è il piglio tutto politico del ritornello: “When what you get / Is what you don’t want / Don’t react, respond”).

Nella title track Dark Matter nel giro di poche parole sintetizza buona parte delle storture del mondo di oggi (a partire dalla questione ambientale?): “It’s strange these days / When everybody else pays / For someone else’s mistake”. E in Upper Hand serpeggia un timore da fine del mondo (“The distance to the end / Is closer now / Than it’s ever been”).

Waiting for Stevie e Running mostrano di nuovo una grande intelligenza emotiva, talora anche ruvida (“You can be loved by everyone / And not feel love / You can be told by everyone / And not hear a word from above”; “Now I’m lost in all the shit you’re flushing”).

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