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Tiziano Ferro e la musica come “unica medicina per tornare in vita”: un estratto in esclusiva dal romanzo

Un racconto intenso e pieno di emozioni: “La felicità al principio” è in libreria dal 3 ottobre. Qui un capitolo del libro insieme a un’ampia spiegazione scritta dall’artista stesso

Autore Billboard IT
  • Il4 Ottobre 2023
Tiziano Ferro e la musica come “unica medicina per tornare in vita”: un estratto in esclusiva dal romanzo

Tiziano Ferro (foto di Walid Azami)

Da anni Tiziano Ferro aveva l’intenzione di dare forma a un romanzo. Nella nostra ultima intervista con lui, a febbraio, gli avevamo anche chiesto se prima o poi ci sarebbe stata la possibilità di gustarci il suo talento nella dimensione narrativa. Ci rispose che ci stava proprio lavorando.

Finalmente da ieri (martedì 3 ottobre) è in libreria il suo primo romanzo La felicità al principio (Mondadori). Il libro di Tiziano Ferro non deluderà i fan: leggerete l’intensa storia di una “disfatta salvifica”, di una lunga discesa agli inferi, iniziata con un’adolescenza di abusi e ossessioni e culminata in una clamorosa rinuncia.

La felicità al principio è un libro sorprendente, a tratti doloroso. Tra le pieghe dei ricordi ci sono tracce di tenerezza e nostalgia di un tempo vissuto e andato via.

Tiziano Ferro spiega il quinto capitolo del suo romanzo

Angelo Galassi è Il protagonista del mio primo romanzo La Felicità al principio. Galassi è un uomo che non affronta la vita, che preferisce essere morto e che lascia che i dolori che lo hanno colpito e lo hanno segnato nella vita lo seppelliscano, scegliendo così di far vincere i cattivi.

Ammetto che a me non solo non è successo tutto questo ma i dolori mi hanno sempre motivato al miglioramento, alla risalita. Se sono stato fortunato o coraggioso lo lascio dire ai posteri.

Il quinto capitolo del mio primo romanzo è un capitolo del cuore in cui realtà e finzione si intersecano in maniera molto equa. Galassi ricorda un episodio molto bello della sua vita e del suo rapporto con il padre. Quando Galassi stava iniziando a diventare famoso, era molto giovane e attirava tanti fan quanti detrattori (le critiche erano spietate e gli amori pure) e non sapeva ancora chi era, sia come artista che come cantautore.

Il padre, vedendolo inquieto e frustrato, gli racconta di quando lui era giovane (erano gli anni ’70, quelli dei capelloni, di Woodstock, della ribellione, dei Rolling Stones, dei Led Zeppelin e dei Beatles) e Battisti rappresentava il pop da femmine, il piagnone, che cantava di amore, che piaceva alle donne. L’amore per Battisti non si poteva dichiarare (strano però che ogni settimana al numero uno dei 45 giri ci fosse lui).

Il padre spiega teneramente al figlio che il mondo è strano e che neppure questo Battisti – che all’epoca conoscevamo solo noi giovani – trovava il suo posto nel mondo.

In quel momento, racconta, eravamo noi giovani ad amarlo e non riuscivamo a dichiarare l’amore per lui perché non ci sentivamo pronti.

È il modo per quel padre di dire: “Figlio mio, vai avanti e prova a farti spazio nel mondo, lascia che siano i fatti a parlare, non le sensazioni del momento”. Questo è un suggerimento che Galassi accoglie, fa suo in un momento in cui la sua vita sta cambiando. Ricorda quelle parole poco prima dell’arrivo della bambina nella sua vita.

Il fatto che Galassi si rendesse pronto al cambiamento (riportando alla mente questo episodio) lo trovo molto simile al mio vissuto. Credo che la saggezza del passato, dei miei genitori e della mia famiglia sia stata tra le cose più importanti che ho portato dentro. Di certo diversamente da come ha fatto Galassi, che addirittura non parla, non spiega ai genitori della sua morte.

Tornando al capitolo, una delle cose che mi piacciono di questo libro è il mondo musicale. La felicità al principio è una playlist su carta. Durante la lettura ognuno potrebbe costruire una playlist fatta di momenti, umori, sfumature.

È un modo di celebrare il rapporto che abbiamo con le canzoni fin da quando siamo piccoli. Perché alcuni cantautori diventano i cantautori del cuore non lo sapremo mai, visto che da piccoli non capiamo neanche i testi. Eppure c’è un’urgenza, un istinto, una nota nelle voci di quei cantautori che poi rimangono e si trasformano. Galassi, ad esempio, racconta che da piccolo ascoltava Il Nostro Caro Angelo di Battisti non capendolo, trovando molto inquietante sia il testo sia il riff di chitarra. Eppure Battisti è sempre presente.

L’elemento musica è un elemento che ho riportato nel libro in modo fedele. Anzi, La felicità al principio mi ha dato la possibilità di parlare in maniera più esaustiva del mio rapporto con le canzoni degli altri e con il mio vissuto, con il repertorio della musica che mi ha accompagnato pur avendo fatto dei percorsi meno costanti rispetto a quello che una canzone può fare quando sei adulto, quando la capisci, quando la senti, quando la sai interpretare.

In questo capitolo mi piaceva parlare del rapporto tra istinto della musica e razionalità. Le due cose non vanno di pari passo, ed è anche la meraviglia della musica che io non voglio cambiare.

Una delle cose che mi piacciono di questo capitolo è il fatto che una volta in più la musica diventa curativa. Le canzoni di Battisti non solo erano il collante tra questo padre e questo figlio (“Non sai quante volte ti ho cantato le canzoni di Battisti io stesso che da adolescente non ammettevo di amare”) ma che la musica sia curativa il mondo lo racconta già, non serve che lo dica io.

La musica aiuta le persone a trovare un canale attraverso il quale esprimere dei concetti, spiegare verbalmente cose che non si riescono a spiegare.

La musica in questo libro diventa più che mai l’unica medicina prescrivibile perché un uomo possa tornare in vita e mettersi a disposizione della vita di una bambina.

Questa è la vera metafora di questo libro. La felicità al principio che parla di speranze e seconde possibilità, che parla di risalita e soprattutto del tema attorno al quale ho declinato la mia intera esistenza, ossia che la musica ha un valore curativo, ha un valore ristoratore.

La musica diventa un territorio nel quale negli alti e nei bassi ci si può consegnare e lasciarsi rigenerare come se fosse un terreno neutro, in cui nessuno ti può toccare perché mentre ascolti quella canzone sei solo tu, quell’artista, il tuo cuore e il tuo pensare.

L’estratto de La felicità al principio

Capitolo 5: Come papà con Battisti

Angelo Galassi ormai non le poteva più sentire, le canzoni alla radio. La morte nera.

Un fastidio generato da un misto di suoni uguali, melodie prevedibili, urlate, spesso zuppe di strascichi dei suoi vecchi successi.

E quando era in vita la cosa lo irritava, lo urtava, lo offendeva pure. Invece di tributo e ammirazione, lui in quelle brutte copie a matita leggeva l’incapacità di comprendere ciò che aveva voluto dire e cantare. Il suo impegno colossale, sminuito e diffamato.

Come se raffazzonare quattro semitoni simili e due – manco quattro – sinonimi strappati a forza dai dizionari, nel tentativo di riprodurre lo “stile Galassi”, fosse abbastanza.

«Questa mi ricorda te.»

Non c’era offesa peggiore.

“Ma che ne sai tu di me? Ricorda me, cosa? Quando?

Nei tuoi deliri da pidocchio rifatto! Perché non sei neppure un pidocchio in quanto tale, già microscopica, pusillanime, parassitica forma di vita. No. Tu sei più in basso. Ti sei modificato ma a peggiorare, ti sei impegnato a fare una versione involuta di una cosa già vile” pensava, a volte anche a voce alta.

E poi certe canzoni andavano pure al numero uno della classifica.

Come? Magari Angelo lo capiva pure.

Quello che non capiva era: cos’è davvero il numero uno? Chiunque conoscesse Galassi – a malapena o profondamente – poteva dichiarare senza indugio che era un uomo pilotato dalle emozioni.

Il più delle volte. Quasi sempre.

Il rapporto tra Angelo Galassi e le sue emozioni era, in effetti, pura schiavitù.

Il suo cuore, carceriere sadico e incorruttibile, lo incatenava e nascondeva la chiave.

In quei momenti, però, entrava in gioco la marcata razionalità di Angelino – che nessuno sospettava esistesse. La gente era normalmente troppo distratta, troppo attratta, o entrambe le cose, al cospetto del cantautore crepuscolare Galassi.

Ed erano molte le passioni, di natura puramente cerebrale, che Angelo coltivava: archiviare documenti, faldoni, cartelle o semplicemente libri. Mettere in ordine l’armadio in camera da letto e l’armadietto della cucina, dove custodiva la sua collezione di tazze da caffè americano. La matematica, la trigonometria, le derivate e gli integrali. La biologia, la chimica, la geologia e la scienza medica. Durante il lockdown si era iscritto a un corso online per infermieri. Fino a quando si era trattato di memorizzare termini, concetti, nomi e composizione dei farmaci, era andato tutto bene. Praticare le manovre di pronto soccorso via banda larga era invece assurdo, ridicolo, anche patetico. Addio, università telematica!

Galassi, inoltre, era ossessionato dalle lingue. Aveva studiato con discreto successo: l’italiano, l’inglese, l’armeno, il mandarino e il giapponese. Con esito meno favorevole: il francese, il tedesco e l’arabo.

Adorava le parole, le rispettava e le proteggeva.

“Cos’è davvero il numero uno?”

Un uomo come Angelo, così devoto alla sintassi, non avrebbe mai consegnato al puro caso la scelta di un pronome interrogativo.

“Ah, non è una questione di vita o di morte?! Ma scherziamo? Chi non sa esprimersi correttamente e commette errori di ortografia, prima o poi ti deluderà – non c’è dubbio. Ricordatelo, e poi appena succede fammelo sapere. Perché si tratta di quando e non di se accadrà!”

Quindi: non chi ma cosa.

C’era stato un tempo in cui il numero uno esprimeva semplicemente una quantità, la posizione in un elenco, un parametro tra grandezze dello stesso modello.

Il numero uno è un membro qualsiasi appartenente all’insieme dei numeri naturali. L’elemento neutro di moltiplicazioni e divisioni. È un numero dispari. È il primo e il secondo numero della successione di Fibonacci, ovviamente prima del due.

Era un numero primo. Mentre adesso era solo una miserevole cifra, nulla di speciale ormai, nel mondo in cui si sale sul podio anche solo per aver partecipato.

Il povero numero uno, stracciato e straziato nei comunicati stampa dei bimbi prodigio. Comunicati dattiloscritti sul cellulare con il correttore automatico che svolge il mestiere di PR improvvisate, laureate in Scienze della comunicazione, ultraquarantenni, con evidenti problemi di sovrastima e dipendenza dalle repliche di Sex and the City, narcisismo e feticcio per le leccate di culo.

Prima c’era uno stadio pieno, ora solo una vasca torbida del milione di clic distratti.

Angelo era rimasto traumatizzato leggendo una recente statistica: il fruitore medio delle piattaforme di streaming digitale ascoltava normalmente solo i primi ottanta secondi della canzone selezionata. Di rado li superava, molto più spesso invece si fermava a meno di sessanta.

“Ottanta secondi?! Ma questo è un sacrilegio, questa è blasfemia! Nei primi ottanta secondi di Bohemian Rhapsody, Freddie Mercury manco ha cominciato a strillarli fuori la rabbia e il dolore necessari per raccontare quella storia. Come avrebbe fatto, Freddie, a sopravvivere alla legge degli ottanta secondi?”

Quindi, ottanta secondi perché? Per andare al numero uno senza essere stati ascoltati veramente.

E per fortuna, direbbe qualcuno – di certo Galassi.

Tutto questo, Angelo lo ripeteva a sé stesso ricordando gli anni Novanta, quando i dischi che andavano al numero uno significavano l’impegno di circa trecentomila italiani che si alzavano dal divano, andavano in un negozio, sceglievano accuratamente – sfogliando a lungo gli album appena usciti –, quindi investivano una certa somma (nel caso di molti, l’intera paghetta settimanale) per portarne uno a casa. E succhiarlo via, fino all’ultima nota. E poi altre cento volte.

Questa era stata l’adolescenza di Angelo, mentre sognava di scrivere canzoni per mestiere.

E poi pensava: “… Oh, Galassi, somiglia a un pezzo tuo”.

Che fastidio, che nervoso.

Se solo quegli scappati di casa – e soprattutto da scuola – avessero capito.

Se solo avessero capito quanto era immeritato il successo di certi sciacalli di idee che furono, e quanto era doloroso dover essere spettatore della loro gloria, anche loro avrebbero bevuto fino alla morte. Come Angelo, che però – sulla carta – morto lo era già.

“E si farebbero un’altra pera di eroina. Ma che ne sanno? Loro mi credono morto” si ripeteva – e odiava i tributi sui social network, i post di quei giovani scribacchini indipendenti. “Indipendenti da cosa, poi?” li sgridava mentalmente. “Indipendenti dal gusto, dalla conoscenza e dall’orgoglio vero che si prova a essere cantautori di lingua italiana, con i nomi d’arte che sembrano malattie veneree; nomi accuratamente grezzi e senza poetica, perché non sia mai che ci emozioniamo e piangiamo, che poi finiamo… come Galassi.”

E sotto il post: “Rispetto per #Galassi”.

Che schifo.

In quei momenti, gli veniva voglia di non essere morto mai. Manco per finta.

Il papà di Angelo era nato all’inizio degli anni Cinquanta. Amava la musica britannica e se a casa, nell’appartamento con una sola camera da letto, non c’erano lussi e decori, in compenso c’era sempre The Wall a volume troppo alto, c’erano i Beatles col riff di Come Together e l’armonica eterea di Stevie Wonder – che ad Angelino allora metteva un’ansia che sembrava invalicabile.

A cinque anni ancora sapeva poco di ansia e depressione, ma evidentemente le fondamenta erano in rapida evoluzione.

E poi Battisti. Sempre, immancabile, a ogni ora, da ogni stereo, autoradio, mangiadischi, mangiacassette, apparecchio portatile Hi-Fi o, molto più spesso, analogico.

Che belle canzoni. Punto.

Senza discutere.

L’unico dubbio amletico: ma chi era ’sto “caro Angelo”? A cinque anni, Galassi pensava che la canzone fosse una specie di triste minaccia a lui e alla sua specie, a tutti gli Angelo.

Lui in quel brano, nella voce di Battisti, sentiva quasi una sorta di rimprovero.

Come quando la maestra della primina diceva: «Vieni qui, bello», e poi sbam! – schiaffone spietato. Trappola per il bambino beccato a chiacchierare.

Comunque, secondo Galassi, Lucio in quel brano avvisava con goduria e sadismo tutti quelli che si chiamavano – appunto – Angelo. Del tipo: “Ora sei in auto che vai verso casa di tua nonna. Ma poi, ma poi…”. E partiva quel “solo” di chitarra cupo.

Sempre riff cupi, in casa Galassi. Qualcosa di oscuro bisognava aspettarselo in effetti, con certi presagi non si scherza.

C’era una fossa dei leoni, e poi questo caro Angelo che dormiva sotto i cespugli e si cibava di radici. Ma non sarebbe stato schiavo mai.

Lui a Lucio ci aveva sempre creduto, e lo aveva ascoltato sempre con attenzione. Dalla casa con una sola stanza da letto, angosciato o meno.

Papà diceva sempre ad Angelo, quando a venticinque anni era già famoso, celebre e tanto amato quanto odiato: «Figlio mio, sai cosa succedeva negli anni Settanta, quando io ero ragazzo? Tutti prendevamo per il culo chi ascoltava Battisti perché era piagnone, cantava male, piaceva alle femmine… “’Fanculo Battisti” dicevamo! Noi ascoltavamo i Led Zeppelin, Frank Zappa e i Rolling Stones».

E continuava: «Oh, era il 1970, figurati! Tutti rivoluzionari e figli dei fiori! Però, al numero uno dei 45 giri più venduti, ogni settimana c’era lui. C’era sempre Lucio». Quindi sorrideva, come quando lo consolava per un ginocchio sbucciato: «E che non lo vedi papà quanto lo ama, Lucio? Io ce li avevo tutti i suoi 45 giri. Tutti cantavamo le sue canzoni con la chitarra, da ubriachi, senza una lira ma innamorati, sulla spiaggia o in sei in una 500».

Poi, ancora più consolatorio e dolce: «Ma non lo dicevamo. Figlio mio, il mondo è così. Canta le tue canzoni. Sai quanta gente le sta cantando sulla spiaggia, magari proprio adesso? Come papà con Battisti. E prima o poi anche loro, magari, faranno ascoltare le tue canzoni ai loro figli. Tu le sai tutte a memoria le canzoni di Lucio, no?».

Angelo non l’aveva mai dimenticato quell’aneddoto. Quanta cura, quanto conforto, quanto amore.

Ancora adesso lo sentiva, pure da morto.

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