Top Story

“La zona d’interesse” vi farà ascoltare il rumore del male

Il film di Jonathan Glazer, favorito per vincere l’Oscar come migliore opera in lingua straniera, e candidato ad altre quattro statuette tra cui miglior film e miglior regia, arriva oggi nelle sale italiane. Un’opera costruita sul suono del non-detto

Autore Samuele Valori
  • Il22 Febbraio 2024
“La zona d’interesse” vi farà ascoltare il rumore del male

Sarebbe bello poter avere a disposizione un metodo così efficace come quello sfruttato da Jonathan Glazer per immergere qualcuno nella lettura. Un modo per zittire di colpo tutto il mondo circostante attraverso un suono lungo e disturbante e una tinta unita sfocata. Al cinema è più immediato. Si spengono le luci – e i cellulari possibilmente – e poi ci pensa l’audio. La zona d’interesse inizia con un minuto di schermo nero e un rumore che diventerà parte integrante della colonna sonora di Mica Levi col trascorrere dei minuti. Di colpo ci si dimentica del presente e ci si ritrova di fianco al campo di concentramento di Auschwitz, nella residenza del comandante Rudolf Höß.

Non è la banalità del male

La zona d’interesse è un film paradossalmente essenziale e complesso. Essenziale, ma non per questo minimale, lo è nella messa in scena e nella trama. La storia, ispirata al libro di Martin Amis, è quella di Rudolf Höß, militare delle SS e primo comandante del campo di concentramento polacco. Il lungometraggio descrive il quotidiano della sua famiglia: sua moglie Hedwig (interpretata dalla magnetica Sandra Hüller, protagonista in Anatomia di una caduta, ruolo per il quale è candidata ai prossimi Oscar come miglior attrice), i suoi cinque figli e la servitù. La casa è stata ricostruita in modo fedele, dallo scenografo Chris Oddy, al fianco del lager di Auschwitz che il regista Glazer mostra solo dall’esterno.

Le mura del campo di concentramento e il fumo che sale dai camini sono presenze costanti sullo sfondo e rappresentano l’unico elemento tangibile di tutto il non-detto. La zona d’interesse non mette in mostra la banalità del male, ma al contrario la sua meticolosità. Il lavoro di Rudolf Höß è quello di un amministratore che deve mandare avanti la propria fabbrica di scarpe. Riducendo i tempi di produzione senza aumentare i costi. Riunioni di lavoro, le telefonate dai superiori di Berlino e infine la promozione: tutti elementi tipici di un lavoro qualunque, ma tutt’altro che banale.

La promozione, nel caso di Höß, è il compito di gestire la deportazione di 700mila ungheresi nel campo di Auschwitz. Stiamo parlando della gestione di un’industria del male e della sua catena di montaggio.

Il rumore del male

L’abilità di certi registi e la grandezza di alcuni film si misurano anche dalla loro capacità di “suggerire”. Jonathan Glazer, pur mostrando un’unica prospettiva, riesce a raccontare molto di più di ciò che sembra. Merito della sceneggiatura con i suoi dialoghi poveri e appuntiti, ma soprattutto del sonoro. C’è la colonna sonora rumorosa di Mica Levi che fa capolino qua e là, come a separare i vari capitoli della storia, e poi tutto il montaggio audio di Willers e Burn che racconta l’altra parte della storia. Quella che si svolge aldilà del muro che costeggia il giardino della residenza Höß.

Tutto quanto accade dietro lo sfondo lo ascoltiamo e, più passano i minuti, più non vorremmo farlo perché stimola la nostra immaginazione. E non c’è cosa più spaventosa di immaginare il male, ancor di più quando abbiamo già sei milioni di idee su quello che possano significare quei suoni. Il lavoro fatto da Tarn Willers e Johnnie Burn, candidati all’Oscar e premiati agli ultimi BAFTA, è monumentale ed è perfettamente combinato con il montaggio video e la fotografia.

Jonathan Glazer, come molti altri registi britannici, tra cui David Fincher, ha iniziato la propria carriera girando video musicali. I primi furono Karmacoma dei Massive Attack e The Universal dei Blur, ma quello per cui è spesso ricordato è Karma Police dei Radiohead. Già dai suoi lavori musicali si nota come il suo stile si differenzi da quello tipico dei videoclip. Non c’è montaggio serrato, ma i ritmi sono dilatati e descrivono l’alienazione dei protagonisti. Ne La zona d’interesse tutto ciò è portato a un livello superiore grazie al lavoro di Paul Watts (montaggio) e del direttore della fotografia Łukasz Żal.

La luce naturale e le numerose macchine da presa posizionate nella residenza del protagonista creano dei piani sequenza glaciali. Gli attori sono ripresi come se fossero sul palco di un teatro. La quantità di camere ha permesso di riprendere i personaggi da cinquanta angolazioni diverse contemporaneamente. Tutto questo non fa altro che enfatizzare i dettagli sullo sfondo. Il filo spinato, i tetti e i camini del campo di concentramento su cui l’occhio non può fare a meno di andare a posarsi.

La zona d’interesse non è un film da far vedere nelle scuole

O meglio non alle scuole medie, ma magari in un liceo o in un istituto superiore. La zona d’interesse non è il classico film sull’Olocausto, non si pone il problema di spiegare e soprattutto mostra un unico punto di vista. Quello della catena di montaggio del dolore. Un alunno delle medie non capirebbe fino in fondo, ma avrebbe bisogno e desidero di visualizzarli quel dolore e quel male. A tutti gli altri invece, che hanno già impresse in mente le foto, o addirittura sono stati nel museo mostrato nel finale, basta udirne i suoni per rabbrividire.

Il male sistematico e interiorizzato, come il vedere la madre e le sue amiche spartirsi i vestiti dei deportati, o giocare in modo innocente con i denti di chissà chi mentre si mettono in fila i soldatini e dalla finestra aperta della cameretta penetrano le urla, diventa normalità. Quella normalizzazione del male e del dolore altrui che viene mostrata, in una delle scene più forti del film, quando il figlio maggiore rinchiude per gioco suo fratello più piccolo nella serra in giardino e rimane a fissarlo mentre piange. La grandezza di un film come La zona d’interesse sta tutta qui. In un periodo storico in cui si tende sempre più spesso a voltarsi dall’altra parte per non guardare, Jonathan Glazer riesce a farci vedere e percepire il male fin nella bocca dello stomaco senza mostrare nulla, se non i suoi riflessi o l’eco delle sue grida.

Share: