Interviste

TY1: «Non seguire le mode è la chiave per sopravvivere nella giungla dell’industria»

In occasione dell’uscita di Djungle Unchained, abbiamo incontrato il dj e maestro di beat campano per parlare di passato e futuro del rap italiano, per capire perché i producer album stiano sfondando nel mercato solo adesso e per chiedergli qualche consiglio su come sopravvivere in questa Djungle che è l’industria (spoiler: non facendo musica solo per fare i soldi)

Autore Greta Valicenti
  • Il20 Dicembre 2022
TY1: «Non seguire le mode è la chiave per sopravvivere nella giungla dell’industria»

TY1

Se nel 2008 con la Dogo Gang eravamo i Benvenuti nella giungla, quattordici anni dopo è TY1 a darci il suo benvenuto nella sua Djungle Unchained. Il disco, uscito venerdì 16 dicembre, riprende il percorso iniziato a maggio del 2021 con Djungle e lo arricchisce di sette tracce inedite. E proprio la corposità della nuova tracklist esclude il concetto di repack, come ci tiene a precisare TY1, dj e producer campano, uno di quei nomi che davvero hanno contribuito a scalfire nella pietra la storia del rap italiano.

Nella Djungle, però, non c’è solo il re TY1 e le sue belve feroci (Guè – con una strofa memorabile. Di nuovo -, Coez, Massimo Pericolo, Franco126, Bresh e la SLF), ma anche i cuccioli, di nome ma non di fatto. Un branco di giovanissimi talenti (Kid Yugi, J Lord, Nerissima Serpe, Nicola Siciliano, Touchè, 8blevrai, Delé e Epoque) pronti a sbranare il beat con barre e rime affilatissime e che hanno colpito il dj e producer campano per la loro unicità e originalità.

Che poi, è anche uno dei consigli che TY1 dà nella nostra intervista ai ragazzi che si approcciano al rap per sopravvivere in questa spietata giungla che è il mercato discografico. Sii te stesso, non farlo per soldi, trova un flow che sia tuo, non seguire le mode, e se proprio proprio devi parlarmi di scarpe e tipe, fallo almeno con stile.

Come mai hai deciso di fare una versione deluxe di Djungle anziché un progetto ex-novo? Anche se, come hai detto tu, Djungle Unchained è più che altro un mini LP che va ad aggiungersi al disco precedente.

Fondamentalmente perché dal disco era rimasta fuori della roba che sapevo già sarei andato a rinnovare più avanti. Poi quando cominci a produrre continui a farlo, tanto che qualcuno alla fine deve fermarti e dirti «senti, adesso basta, pubblichiamo qualcosa». Figurati, io sarei andato anche avanti! Volevamo comunque proseguire questa saga di Djungle, la mia idea era quella di chiamarlo Djungle 2, ma poi Ciro, il mio manager, mi ha detto «ma perché non lo chiamiamo Djungle Unchained come il film?». L’ho definito un mini LP perché di solito una deluxe ci sono sono tre o quattro pezzi nuovi, qui alla fine ne ho inseriti sette.

Djungle era uscito poco dopo gli svariati lockdown, mentre questo album viene fuori da un anno per te molto frenetico e florido in cui sei stato tanto in giro a suonare. Djungle Unchained è un po’ figlio di questo periodo?

Assolutamente sì, è totalmente un’altra roba rispetto a Djungle. Stavolta ho prodotto le basi di getto, poi la fase più complicata è stato il dopo: assemblare i feat, avere tutti gli ok… Fare i beat per me è il meno, se sono ispirato in due giorni li ho. Djungle invece è nato in quasi due anni, è stato veramente un parto. Anche il fatto di stare in giro ti cambia proprio il modo di produrre, quindi è sicuramente come dici tu, Djungle Unchained è proprio figlio di quella che in realtà è la mia vita normale. Io sono sì un producer, ma la mia prima passione e il mio primo lavoro è fare il dj, esibirmi live. Non sono uno di quelli che sta chiuso in studio, a me piace proprio portare in giro la musica che produco.

E per quanto riguarda la lavorazione come si è svolta?

Io prima faccio i beat e mano a mano comincio a mandarli, anche perché poi il processo è lungo. Per fare ad esempio Benjamins con gli SLF ho dovuto lavorare singolarmente con ciascuno di loro ma il beat c’era già. Quando produco poi già più o meno so a chi può andare il beat, non sono uno che ti manda una cartella con quindici basi, al massimo te ne mando due perché già so che una delle due andrà bene.

In queste sette nuove tracce per altro hai deciso di inserire soprattutto artisti giovanissimi.

Sì, molti me li hanno fatti sentire, Ciro ad esempio mi fa sempre sentire artisti nuovi e ogni volta ci becca. Così è stato per Kid Yugi e Nerissima Serpe. Io poi ho fatto da direttore artistico e li ho assemblati, ma loro due non si conoscevano nemmeno! Questa cosa mi era successa anche con Coez e Neffa, che prima non si conoscevano. Nel caso di Touchè e 8blevrai è stato Touchè che me lo ha fatto conoscere.

E c’è qualcosa di loro che ti ha colpito particolarmente?

Sono tutti molto fighi. Kid Yugi lo avevo sentito rappare su questo beat old school e l’ho visto proprio sciolto, aveva degli incastri di rime e delle parole bellissime. Questo mi ha colpito molto di lui, ma anche di Nerissima. Entrambi hanno uno slang e un modo di parlare che sono proprio personali e che non ritrovo spesso. La mia scelta poi è dettata dall’originalità. Un ragazzo può essere anche acerbo, ma se intravedo qualcosa di originale in quello che dice e come lo dice, allora è fatta. Come quando ho sentito per la prima volta Popolare di Marra. Ragazzi, faceva paura. Aveva queste metriche spezzate, questi incastri pazzeschi. Ho subito pensato fosse un genio. Questa è la cosa che mi colpisce.

Ecco, visto che citi Marracash mi collego ad un pezzo in cui è presente. Djungle si apriva proprio con la title track in cui Marra cita se stesso in Benvenuti nella giungla della Dogo Gang. In quel brano diceva «questo schifo di città è come una giungla fra’, e ci sono serpenti, volpi e leoni, e se serve devi essere tutti e tre». Sostituiamo per un attimo la città con l’industria: che consiglio daresti ai ragazzi per sopravvivere?

Il mio consiglio è quello che ho sempre dato a me stesso: non avere mai fretta di sfondare e fare soldi. La prima cosa è trovare un sound, uno studio e una cultura musicale, e non imitare le cose che vanno. Pensa solo a Sfera e Ghali quando sono usciti con Charlie Charles. Avevano proprio un loro sound, per quello sono esplosi. Potevano piacere o no, ma quella roba la facevano solo loro ed erano riconoscibili. Stessa cosa per la Dark Polo Gang con Sick Luke. Non seguire la moda secondo me è la chiave di tutto. Un’altra cosa che io dico spesso e che secondo me è molto importante è che se fai il panettiere, raccontami di come fai il pane. Non dirmi che hai la Lamborghini che invece non hai, quello è un gravissimo errore che molti giovani oggi fanno.

Ostentare qualcosa che non si ha perché sentono gli altri che lo fanno, solo che magari un altro ce l’ha davvero. Raccontami la tua vita vera, l’hip hop è una roba real, si sente poi se uno è fake. Tu mi puoi pure raccontare della scarpa figa, delle tipe, però me lo devi dire in modo interessante, con delle rime incredibili e un flow assurdo come ad esempio fa Guè. Se invece mi parli di queste cose e lo fai pure in modo scarso, a maggior ragione ti skippo. Conta che a me arrivano tutti i giorni demo da ragazzini, io glielo dico proprio in faccia, così come se trovo qualcosa di interessante. Kid Yugi ad esempio è uno che ha una sua via. Poi per carità, io capisco anche l’effetto Maradona, per cui nasci povero e una volta che fai i soldi ti perdi. Capisco che a quell’età sia difficile gestire il successo e i soldi.

Anche perché oggi l’ingresso nel mercato è molto meno macchinoso di quanto poteva essere agli inizi, inserirsi e proporre la propria musica è un processo molto più fluido e rapido.

Esattamente, anche se ci sono dei pro e dei contro di questa cosa. Sicuramente ci sono molte più chance ma allo stesso tempo c’è tantissima roba, e lì si vede davvero chi lavora bene. Anche il team che ti segue è fondamentale, ma questo è un discorso ancora più ampio.

Poco tempo fa anche Deda è uscito con un producer album e mi raccontava che la sua idea era quella di non sovrapporre troppi artisti su un’unica traccia, lasciando a ciascuno di loro più spazio possibile inserendo anche brani solisti. In Djungle Unchained ho notato un po’ la stessa cosa, tanto che non ci sono mai più di tre artisti sullo stesso beat.

Questa è una cosa che dipende da caso a caso. Se diventa una posse track può essere figo, Night Skinny ad esempio le fa sempre e gli riesce sempre bene. Anche io come Deda nel mio album ho fatto molte tracce con singoli artisti, ma poi il bello di un producer album è anche assemblare artisti che magari in altri contesti non collaborerebbero, offrendo quindi una chiave inedita.

A proposito di producer album, in America sono sdoganatissimi e anche in Italia non sono certo una novità. In passato infatti abbiamo avuto dei grandi esempi come Novecinquanta di Fritz Da Cat, 60 Hz di Dj Shocca, Thori & Rocce di Don Joe e Shablo, eppure il prodotto ha iniziato a sfondare nel mercato discografico solo in tempi relativamente recenti, con Mattoni di Night Skinny che ha fatto un po’ da apripista. Come ti spieghi questa cosa?

Anche Deleterio fece un producer album. Non ricordo che tutti questi album all’epoca andarono bene, pur essendo dischi incredibili. Forse l’ascoltatore prima voleva altro, voleva ascoltare il classico album del rapper. Adesso credo che il pubblico sia più aperto anche ad ascoltare altro, e l’incremento dei numeri che fa il rap ha fatto sì che si voglia ascoltare sempre più musica. Di conseguenza anche a noi produttori viene più voglia di fare i dischi, c’è più stimolo anche se un producer album è molto più difficile.

Un’altra cosa molto interessante è l’artwork. Solitamente le copertine delle deluxe non sono troppo diverse dalla versione originale, qui invece c’è un cambiamento totale, soprattutto nei colori. C’è un significato preciso in questa scelta?

Volevamo prendere un elemento preciso della prima cover e fare una variazione, perché da una parte sicuramente si ricollega al disco precedente, dall’altra però è praticamente un altro album. Abbiamo dunque scelto come riferimento il gorilla e ne abbiamo messo la bocca in copertina. La motivazione sta nel fatto che ho voluto dare proprio un altro look al disco, dal momento che anche la musica è diversa. Credo di aver fatto un step in più rispetto a Djungle.

Sicuramente Djungle Unchained è puro rap. Non che Djungle non lo fosse, ma nel disco avevi inserito anche dei nomi del panorama pop italiano.

Esattamente. C’erano Tiromancino, Neffa, Myss Keta. Qui c’è solo una traccia che non è proprio rap, Diamanti grezzi, che è molto più afrobeat ma in cui c’è comunque una radice black che si lega benissimo all’hip hop.

In Djungle Unchained ci sono anche molti emergenti di seconda generazione. Senza dubbio altri paesi d’Europa sono molto più avanti di noi da questo punto di vista, anche perché storicamente le migrazioni sono iniziate prima; penso alla Francia che è già ben oltre la seconda generazione. Credi che man mano anche il nostro rap stia raggiungendo quel respiro internazionale?

Assolutamente sì. Molti artisti italiani stanno spaccando anche all’estero e collaborano con artisti giganti, vedi solo Rondodasosa che collabora con Central Cee. Italia e Europa ormai lavorano benissimo insieme, posso dire che finalmente ci siamo. Quella è anche la magia del web. I produttori italiani poi non hanno nulla da invidiare a quelli europei e non, siamo perfettamente al passo coi tempi.

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