Rock

Lous and The Yakouza, dalla vita nel ghetto al successo di “Dilemme”

Nata in Congo e cresciuta tra Rwanda e Belgio, Lous and The Yakouza è una vera fuoriclasse: si è fatta conoscere con un singolo ma nel 2020 arriva l’album

Autore Silvia Danielli
  • Il25 Novembre 2019
Lous and The Yakouza, dalla vita nel ghetto al successo di “Dilemme”

Lous, cantante dei Lous and The Yakouza

Entra nella stanza e tutti gli occhi sono calamitati su di lei, Lous and The Yakuza. È normale: deve cantare e tenere la scena durante lo show-case che ha organizzato la sua casa discografica, la Sony Music. Ma è il quanto veramente Lous riesca a rapire tutti che è piuttosto inusuale.

23 anni, Marie-Perra Kakoma (questo il suo vero nome) è oggettivamente bella e questo non è un dettaglio secondario quando la si osserva sul palco.


Sottilissima, dalla pelle molto scura date le origini congolesi, Lous (and the Yakouza è il nome della band che la accompagna) ha degli occhi così espressivi che sembrano chiedere la parola e una gestualità così accentuata che si potrebbe pensare sia italiana.

Per ora i Lous and the Yakouza hanno un solo singolo che sta letteralmente spaccando in Europa: Dilemme, al numero 3 della Spotity Viral Chart Italia (la maggior parte degli stream arriva infatti dal nostro Paese): un accattivante mix di musica pop, influenze della canzone francese e basi quasi trap, prodotto dal Guincho, il produttore del momento che lavora con Rosalìa. Nei primi mesi del 2020 uscirà il loro primo album, Gore e il 2 aprile si esibiranno alla Santeria di Milano.




Durante lo show-case, Lous, accompagnata solo dalla chitarra, ne ha dato un’anteprima con 5 brani che saranno presenti nel suo nuovo lavoro. Pezzi che fanno capire perfettamente come la vita di questa cantautrice e compositrice sia stata tormentata e difficile. Come 4h Du Matin, la storia di uno stupro, dal punto di vista della vittima che lo subisce e da quello dello stupratore. Oppure come Dans la Hess, dove hess, spiega Lous, indica in gergo di Bruxelles quando ci si ritrova in strada senza alcun soldo. L’abbiamo incontrata per conoscere la sua storia.

Lous, come è stata la tua infanzia?

Non proprio semplice. Mia mamma, insieme alla mia sorellina minore, è stata la prima a doversi trasferire in Belgio dal Congo per motivi politici e dopo un paio d’anni io e i miei due altri fratelli l’abbiamo raggiunta. Ma in Belgio lei per prima non si è trovata bene: con una laurea in pediatria, aveva trovato lavoro solo come assistente di un dentista.

Per questo nel 2005 ha deciso di tornare in Africa e di andare questa volta in Rwanda dove ci ha raggiunti anche mio padre. Dopo un po’ però, crescendo, mi sono resa conto che non potevo rimanere lì in Rwanda: mancava tutto, io per esempio volevo disegnare ma non potevo procurarmi il materiale, per non parlare dell’aspetto musicale e sono voluta tornare in Belgio.


Come è andato il ritorno?

Male. Non sono stata accettata per nulla, ho vissuto per la prima volta sulla mia pelle il razzismo. Ero in una scuola privata piena di ragazzi ricchi, viziati e sinceramente molto ignoranti, che non avevano mai visto una persona di colore e mi trattavano come se fossi di una specie aliena.

Terminata la scuola ho comunicato ai miei genitori che mi sarei dedicata unicamente a ciò che amavo realmente, la musica, e lì è andata ancora peggio.

Loro, entrambi medici, non potevano accettare il fatto che non volessi proseguire gli studi per un’attività, a dir loro, poco seria. Per questo mi hanno detto che se questa era la mia volontà, loro non mi avrebbero dato più un soldo.


E tu come hai fatto a sopravvivere?

Ho iniziato a spacciare erba e a fare altre cose stupide di cui mi sono pentita: sono entrata nel cosiddetto ghetto. Non volevo andare a lavorare in un McDonalds, volevo lavorare solo due-tre giorni al mese, guadagnare un sacco di soldi e poi dedicarmi alla musica.

Poi a un certo punto è cambiato tutto e hai deciso di rivolgerti a El Guincho, il produttore di Rosalìa, alla quale sei stata spesso paragonata per la capacità di unire mondi sonori differenti.

Non avevo nemmeno sentito una canzone intera di Rosalìa, soltanto il trailer di 30 secondi di Malamente e ho pensato: voglio lavorare con questo produttore che unisce così bene flamenco e hip hop. Proprio come volevo fare io con la musica tradizionale francese, il pop e la trap.


El Guincho mi ha risposto subito entusiasta ed è iniziata una collaborazione pazzesca. Io mi sono trasferita qualche giorno a Barcellona e lui è venuto spesso a Bruxelles: insomma ha prodotto tutto il mio primo album che uscirà l’anno prossimo.

Che tipo di musica tradizionale francese volevi recuperare?

Sono cresciuta con Dalida, Edith Piaf, Barbara ma anche il più recente Stromae è un esempio per me. Tutte le mie canzoni, tranne il singolo (e un’altra canzone nell’album) che uscirà nei prossimi mesi, partono con un pianoforte e la mia voce. Sarà che sono in fondo un po’ vintage ma per me la musica è quando c’è la melodia.

Il simbolo che hai disegnato sulla fronte è legato a una questione religiosa o politica?


Oh no! L’ho inventato io: sono io che tendo le braccia al cielo, come se pregassi o forse come se soltanto mi volessi aprire al mondo.

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