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“Civil War”, il presente distopico fotografato da Alex Garland

Esce domani nelle sale italiane il nuovo film del regista britannico che, negli Stati Uniti, ha già sbancato al botteghino, diventando il miglior esordio di sempre per A24

Autore Samuele Valori
  • Il17 Aprile 2024
“Civil War”, il presente distopico fotografato da Alex Garland

La fantascienza, da genere positivista degli anni ’50, si è poi trasformata nel tempo, diventando lo stratagemma preferito dal postmodernismo per analizzare la realtà. Una delle declinazioni più sfruttate, sia a livello letterario che cinematografico, è sempre stata quella del futuro distopico, spesso creato a immagine e somiglianza delle paure del presente. Gli Stati Uniti divisi e devastati del nuovo film di Alex Garland però incutono più timore di quello che ci si aspetterebbe. Civil War non solo non è un’opera di fantascienza, ma nel suo sfiorare tematiche e scenari odierni, è molto meno distopica di quello che vuol sembrare. A qualche mese dalle elezioni del Presidente degli Stati uniti, questo film è come fosse un monito.

Per chi ha visto i precedenti film di Alex Garland, in particolare i primi due Ex Machina (2015) e Annientamento (2018), lo sguardo del regista britannico sulla storia e i personaggi sembra meno asettico del solito. Gli Stati Uniti, spaccati tra il governo dittatoriale del Presidente e le Forze Occidentali secessioniste del Texas e della California, sono un misto tra il mondo post apocalittico di The Last of Us e A Quiet Place. Il modo in cui interagiscono i protagonisti è l’unico barlume di umanità che traspare. Lee (Kirsten Dunst) è una celebre fotoreporter che, insieme ai due giornalisti Joel (Wagner Moura) e Sammy (Stephen McKinley Stephenson), vuole ritrarre gli ultimi momenti del Presidente degli Stati Uniti prima che venga destituito. Con loro c’è una giovane aspirante fotogiornalista, Jessie, interpretata dall’emergente Cailee Spaeny, Coppa Volpi a Venezia per Priscilla.

La guerra civile secondo Alex Garland

Il viaggio verso Washington dei quattro protagonisti, attraverso immagini crude e movimenti di camera essenziali, mostra le criticità del nuovo mondo. La guerra civile non ha regole, i crimini sono all’ordine del giorno e l’unica arma sono le fotografie. La sola testimonianza tangibile con cui poter razionalizzare l’orrore e denunciare il presente in vista di un futuro migliore. Il film mette subito in mostra, anche in modo piuttosto prevedibile, il rapporto generazionale tra Lee e Jessie. La prima si rivede nell’ingenuità della seconda con cui lo stesso spettatore è portato a immedesimarsi. Un rapporto che si ribalterà, anche per chi guarda, col passare dei minuti.

Civil War è un road movie in cui la tensione rimane costante. E anche a fronte di qualche ingenuità di trama, la capacità degli attori rende tutto credibile. Persino quando Garland, nel rappresentare il modo di lavorare dei fotoreporter, viaggia un po’ troppo con la fantasia. Tra le prove migliori spicca su tutte le altre quella di Kirsten Dunst, abilissima nell’esprimere tutte le contraddizioni emotive vissute da chi svolge un lavoro del genere. Menzione speciale va anche a Jesse Plemons (Breaking Bad, Il potere del cane, Killers of the Flower Moon) che, negli appena quindici minuti in cui è in scena, dà vita a uno di quei personaggi che rimangono in testa una volta usciti dalla sala.

Jesse Plemons

Davanti al dolore degli altri

«Se mi sparassero scatteresti la foto?» chiede Jessie a Lee in una delle scene della prima mezzora del film. Nel 2003 Susan Sontag, nel libro Davanti al dolore degli altri, s’interrogava sul dilemma della rappresentazione della violenza della guerra attraverso le immagini. Fin dove ci si può spingere nel mostrare tali atrocità? Quando diventa necessario mostrare l’orrore per far sì che non accada di nuovo? Sono domande che tornano spesso durante il film e popolano la testa della giovane protagonista Jessie e di cui, di esperienza in esperienza, la protagonista imparerà a sbarazzarsi. Con lei anche lo spettatore che, a sua volta, comincerà a pensare al momento esatto in cui lui stesso scatterebbe la foto. Magari cercando di beccare l’attimo in cui il proiettile si infila nel corpo della vittima.

La violenza e l’azione possono essere anche calamitanti e attraenti. Il personaggio di Joel ne è la dimostrazione. Vederlo eccitarsi difronte alle sparatorie e soprattutto vederlo sorridere, nascondendo una paura profonda e una grande quantità di traumi, riporta alla mente il tenente colonnello Kilgore di Apocalypse Now e la sua ossessione per l’odore del Napalm al mattino.

Ma il giornalismo è lì per quello stesso odore di morte e non può tirarsi indietro: per amore della verità e anche della notorietà derivante dal riuscire a realizzare lo scatto del secolo. La fotografia e il suono del fermo immagine in bianco e nero diventano così sempre più protagonisti e scandiscono il tempo della musica e delle scene più movimentate. È qui che emerge maggiormente l’estro di Alex Garland che, a differenza dei ritmi più lenti delle prime opere, qua dimostra di saper costruire un film d’azione e di guerra.

Cailee Spaeny e Kirsten Dunst

Civil War e la fuga dall’apocalisse a suon di musica

Se i protagonisti di Civil War vanno incontro all’apocalisse per fotografarla, Alex Garland ha fatto di tutto per mantenere le distanze. Di film di guerra o di road movie di sopravvivenza ne sono stati girati a bizzeffe negli anni. Il regista britannico riconosce il debito nei confronti di Francis Ford Coppola e del suo capolavoro del 1979. Lo si capisce, non solo dalla già citata caratterizzazione di Joel, ma da piccoli dettagli. Come le immagini dall’alto degli elicotteri o l’ambiente naturale, con piante e sterpagli, che prende il sopravvento sul mondo civile.

Il distanziamento Garland l’ha raggiunto attraverso la musica, evitando di scegliere dei brani contemporanei. Civil War potrebbe essere riassunto da tre canzoni della soundtrack. La prima di queste è Say No Go dei De La Soul che accompagna una delle scene di sparatoria più cruente del film. Una cartina di tornasole di quell’attrazione nei confronti del fascino della violenza. Poi c’è Breakers Roar di Sturgill Simpson, un brano country che fa da sfondo a uno dei pochissimi momenti nella carriera cinematografica di Garland dove c’è spazio per un tocco di sentimentalismo. Alla fine, arrivano i Suicide con Dream Baby Dream, brano che ironia della sorte, venne pubblicato nel 1979.

«You gotta keep that flame burnin’ forever baby» canta Alan Vega. È il messaggio che ci affida Garland e quello che Lee trasmette alla giovane Jessie. Mantenere la fiamma accesa, che sia essa quella metaforica sostenuta dalla Statua della Libertà, o quella di un sogno, non fa differenza. L’importante è rimanere vigili, prima che la violenza esploda e inizi il contagio del suo fascino.

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