Interviste

Fabri Fibra: l’identità, le lotte, la solitudine dei numeri uno

Il rapper è protagonista del nuovo numero di Billboard Italia. Ma non solo: ci sono anche le interviste a Meg, Phoenix, Laurel Halo…

Autore Silvia Danielli
  • Il26 Ottobre 2022
Fabri Fibra: l’identità, le lotte, la solitudine dei numeri uno

Fabri Fibra (foto di Mattia Guolo)

«Sono contento di poter fermarmi e riflettere su quello che mi è successo in questi mesi. In questi anni, direi. Credo sia interessante anche per chi vede noi rapper da fuori. In fondo, forse, non capisce bene cosa facciamo chiusi in studio tutto quel tempo. Sembriamo un po’ i narcotrafficanti in Messico che lavorano in una zona grigia, no?».

La prima notizia è sicuramente questa. Dopo centinaia di interviste e decine copertine, dopo 20 anni dal primo album ufficiale in studio, Turbe giovanili, e dopo altri 10 lavori (di cui l’ultimo Caos uscito a marzo è ancora nella classifica FIMI/GfK dei dischi più ascoltati). Dopo un tour estivo andato alla grande e quasi terminato, Fabri Fibra ha ancora parecchia voglia di riflettere sul significato della sua figura nella scena musicale. E su moltissimo altro, anche.

Ma non solo: nel nuovo numero troviamo anche le interviste a Meg, Laurel Halo, Phoenix. E ancora: Luigi Strangis, Yeah Yeah Yeahs e la grande Ornella Vanoni, fra gli altri. La rubrica History of Music è dedicata a un gruppo di musica dance elettronica che festeggia i suoi onoratissimi 25 anni di attività: i Groove Armada. Mentre in Vinyl Federico Guglielmi racconta come nacque quell’ambiziosissimo progetto che fu Use Your Illusion dei Guns N’Roses.

La copertina del numero di ottobre

L’intervista a Fabri Fibra

«La musica rap è talmente fuori dai canoni e talmente lontana dall’Italia che la gente ancora non l’ha capita», dice Fabrizio Tarducci da Senigallia che di anni ne ha appena compiuti 46. E anche qui viene da chiedergli: ma come? Non facciamo che parlare di quello! «Guarda, più viene esposto il genere e meno la gente ne capisce qualcosa! Ma questo problema riguarda anche gli addetti ai lavori». Lo stupore diventa incredulità. Siamo negli uffici del suo management, Paola Zukar, e Fibra è – davvero – pronto a rispondere a qualsiasi domanda.

«Proporre una musica che non è musica leggera in un Paese abituato solo a quella è davvero una cosa impossibile. I giovani chiedono il rap ma dall’altra parte discografici, radiofonici e addetti non capiscono minimamente perché. Si chiedono ancora come mai gente che non fa musica, non canta, non segue quel preciso processo creativo e non rientra in una determinata casella estetica possa essere richiesta. Ti faccio un esempio: io metterò sempre la felpa col cappuccio e mai lo smoking, neanche per andare in TV. Il mio pubblico lo apprezza e francamente penso di potermelo permettere perché faccio rap».

Ma com’è possibile che la gente non abbia ancora capito?

Ormai il gioco è fatto. I discografici hanno già il loro lavoro, le idee chiare, un iter da seguire, quindi perché dovrebbero cambiarlo? Invece questa è una musica che nasce dalle esigenze delle persone. Ed è un genere fuori controllo dove le parole sono fondamentali. Anche nella trap, pure se sembra che il suono abbia più importanza.

Per i ragazzi sentire che nei testi ci sono la loro storia e i loro problemi è cruciale (come, per esempio, non troverò lavoro dopo il diploma oppure il racconto della noia del sabato sera in provincia). Tutto il resto è così accomodante da risultare inaccettabile. Se sei una persona che non ha alcun problema, va bene il pop. Se invece sei normale, con i tuoi problemi, c’è il rap. Per questo funziona.

È anche una questione generazionale per gli addetti?

È riduttivo. Ci sono giovanissimi che lavorano nell’ambiente e ragionano già da vecchi inquadrati. Altri sono ribelli. Penso sia una questione di background ed esperienze di vita. Il problema, ripeto, è che molti non hanno capito niente.

Ci sarebbe anche il rock per un racconto diverso e meno edulcorato della realtà.

C’era. Poi le persone sono invecchiate, hanno fatto i soldi e si sono distrutte con le droghe.

Nel rap no?

Il rap è anche più bastardo, almeno nel rock e nel punk lo facevano davvero. Però conosco moltissimi che parlano solo di distruggersi nelle loro rime ma non si drogano affatto. Non penso sia una questione di incoerenza, eh, tutt’altro. Quando scrivi, in fondo, hai la licenza di uccidere. È sempre arte e non deve raccontare la realtà per forza. James Ellroy ha scritto Dalia nera tranquillo nel salotto di casa sua. Mentre Iceberg Slim, che ha scritto Pimp, racconta davvero di quando lui faceva prostituire le ragazze e tirava di cocaina.

A questo punto arriviamo alla domanda delle domande: che cos’è l’arte? Perché alcuni testi ci prendono e altri no? Succede quando un artista è sincero e si mette davvero in gioco? Alla fine, vanno ancora bene in classifica gli album tuo, di Marra e anche di Gué dove questa cosa l’avete fatta.

È difficile da dire perché, se fosse così facile, tutti produrremmo delle opere artistiche. Alle persone sicuramente interessa capire come l’altro affronta il dolore. È sempre stato così e si scontra con il fatto che questo dolore non va mostrato troppo in altre situazioni. Per esempio sui social o nella vita personale: devi sembrare felice e sorridente, se no le persone scappano. Ci sta, siamo umani.

Nell’arte puoi vedere la sofferenza e non devi interagire. È perfetto. La stessa cosa avviene nel racconto di una vita di abusi ed eccessi: puoi spiarla senza viverla. Poi, sai, negli ultimi anni circola quest’idea che un disco vada bene solo se porta numeri di streaming.

È molto pesante psicologicamente per un artista seguire la logica dei numeri?

Se sei già in gioco non devi pensarci più di tanto. Ma se Jim Morrison, per fare un esempio, dovesse presentarsi oggi, non arriverebbe neanche al secondo disco. È un discorso legato non solo ai musicisti ma a tutte le professioni oggi, anche per la velocità dei commenti. Per esempio un fotografo che mette un post su Instagram può essere massacrato in un istante. L’artisticità è andata del tutto in secondo piano rispetto alle multinazionali. Vince il mezzo, la piattaforma rispetto al contenuto.

Sulle piattaforme sei sempre tu con quello che hai creato, però.

Io credo che sei veramente tu quando sei sul palco. Lì sei fuori controllo e puoi dire veramente quello che pensi. Se no è tutto mediato.

Però i ragazzi cercano quello che vogliono.

I ragazzi non cercano più, dai. Ascoltano quello che viene loro proposto dall’algoritmo nelle playlist. Per me invece l’ascolto di un album intero è una vera esperienza. Soprattutto se capisci che lì c’è un messaggio, ovvero la necessità di sentirsi rappresentato di un artista. Mi affascina l’idea che, mentre il mondo va avanti, una persona si isoli completamente e si dedichi solo ed esclusivamente al racconto degli ultimi due o tre anni della sua vita. Per questo alcuni album sono più solidi di altri. Ma non è detto che tutti debbano fare l’album conscious: e così rispondo alla tua domanda iniziale.

Fabri Fibra - foto di Andrea Bianchera
Fabri Fibra (foto di Andrea Bianchera)
Nell’Outro di Caos dici: “Grazie a me stesso che sono ancora qui. Vaffanculo”. Quanta fatica ha comportato per te arrivare fino a oggi?

Tanta. Se non fosse faticoso tutti farebbero dischi. E sai perché lo è? Perché io voglio fare musica che incontra perfettamente quello che c’è là fuori. Quando ascolti Propaganda, ti affacci alla finestra e vedi che la realtà è proprio quella. Ma trovare parole e suoni giusti è difficile. E il 90% della musica di oggi ti racconta un mondo che non esiste fatto di baci, carezze, soldi. Ci sta anche quello, ma non è quello che voglio fare io. Però la bugia è più interessante della verità e la gente, a volte, la preferisce.

Per fare un disco vero devi anche viverlo. Devi concentrarti. Non puoi stare sempre e solo sui social o in giro a suonare. A un certo punto sono stato aiutato dalla pandemia che, per quanto crudele e spietata, mi ha costretto a fermarmi con tutto. Dai feat agli show, ho preso una pausa. Ma soprattutto da tutta la musica finta che stava arrivando in quel momento, giusta per le radio o le playlist.

Tu con molti pezzi di Caos sei riuscito a produrre delle hit radiofoniche come Stelle con Carucci e Propaganda con Colapesce & Dimartino pur con testi per nulla accomodanti.

Credo che sia perché sono riuscito a mantenere la mia identità. Ma per raggiungerla serve tantissimo lavoro. Poi la vivo malissimo: ho tanti provini che assomigliano a ciò che funziona là fuori e che non voglio utilizzare. Non mi ci rivedo, non mi piace. C’è anche ci scrive su musica che gli arriva da altri ma io quella roba lì non riesco a farla: musica con lo stampino. Quando poi riesco a fare invece quello che mi piace sono contentissimo e mi sento ripagato dei periodi bui. Mi ha dato una soddisfazione pazzesca Propaganda, per esempio: in Italia una canzone così non esisteva, dai!

Colapesce & Dimartino scelta perfetta, tra l’altro.

Sono fantastici, con un’ironia pazzesca. E italianissimi. Per me l’identità italiana è tutto. Soprattutto adesso che c’è così tanta America nei testi degli italiani. Invece loro riescono a raccontare questo momento storico in maniera precisa. Ero felice quando due cantautori così hanno deciso di accettare.

Per quest’album hai detto di aver preso ancora più in mano il controllo di ogni suo aspetto? Più che con gli altri?

Se esce un mio lavoro vuol dire che ho controllato ogni minimo aspetto. Sono contento di essere riuscito a fare un album da 45enne con Caos. Fenomeno rispecchiava un momento diverso in cuiero più spensierato. Ma alla fine quando fai rap ti confronti solo con te stesso. Io spero che i miei risultati siano d’ispirazione a tutta la gente che non si sente appoggiata, tanto quanto non mi sento io.

Non basta avere una major per fare un disco. Quando lo crei sono veramente poche le persone che possono aiutarti. E a questo punto nelle interviste mi chiedono: quindi tu vuoi essere d’ispirazione per chi vuole fare rap? No, non me ne frega. Io voglio essere d’ispirazione per chi ha una pizzeria e non gli viene concesso un mutuo. A lui voglio dire: insisti, credici.

Può essere anche un’arma a doppio taglio questa di pensare che ce la si possa fare sempre. Non credi?

È vero. Secondo me poi, anche un attore incredibile come Robert De Niro quando si trova da solo nel suo letto si dirà: madonna ma che culo ho avuto a riuscire a fare quello che mi piace davvero nella vita? Io me lo auguro. Credo dipenda dal sogno che decidi di seguire, se va bene per te. Non so se io ho scelto la cosa giusta. So che io nella vita ho fatto tante cose e mi sono venute tutte male, a parte la musica. Anche per i lavori più semplici mi hanno sbattuto la porta in faccia, come quando ero in uno studio di grafica pubblicitaria o in un ristorante. Ho provato a vivere in una città più normale (di Milano, ndr) e all’estero, ma niente.

Possiamo dire che quando raggiungi il massimo del successo tocchi l’apice della solitudine?

È il prezzo che paghi. Dal punto di vista pratico non puoi stare con gli amici perché hai orari e abitudini completamente diversi. Anche se vorresti. Non ti ricordi i loro compleanni né altro. Tu magari vivi per realizzare un evento e questo è difficile da concepire per il resto del mondo. Anche perché dopo continui a vivere nel ricordo di quello che è successo che è meglio di qualsiasi altra cosa: droga, sesso, buon cibo. Forse è paragonabile solo all’avere figli, credo, anche se non li ho avuti. Se fai arte puoi essere felice da solo in qualsiasi posto al mondo, anche il più brutto.

Puoi frequentare gli altri artisti?

No, perché c’è la competizione. Se non ci fosse, dovremmo tutti fare qualcos’altro, perché l’asticella la devi mantenere sempre alta.

Ma ci sono delle figure che ti danno una mano ad affrontare tutto?

Non sai mai chi ti verrà incontro. Per esempio, per questo album i 2nd Roof mi hanno aiutato moltissimo. Non avevamo mai lavorato così tanto insieme. Per esempio, Pietro si stava spostando dal Maine a Los Angeles a New York. Loro si stavano spostando negli Stati Uniti, abbiamo iniziato a scriverci a distanza e ci siamo trovati molto in sintonia. Mi è capitato invece di incontrare produttori in studio con cui non è scattato nulla. È tutta una questione di energie.

In Goodfellas parli invece del rapporto con i rapper più giovani: “La maggior parte dei rapper che ascolti ora / Sono cresciuti tutti ascoltando la mia roba / Mi scrivono in privato: “Fibra, sei un mito” / Chissà perché nelle interviste non lo dicono”.

Alla base del rap c’è sempre un sacco di invidia e di competizione, non ci sono quei valori che puoi trovare negli Stati Uniti o in Francia. Valori che vanno al di là della classifica e dei risultati, come la riconoscenza verso le generazioni precedenti. In Italia rimarrà sempre un genere importato e gli artisti vogliono sempre e solo prevalere sugli altri.

A me pare sempre di aver mostrato gratitudine per chi è venuto prima di me. Spesso sono artisti che fanno tutto un altro genere di rap, preferiscono parlare di soldi e macchine. Per cui diventa anche impossibile collaborare insieme perché io faccio “il rap di Fabri Fibra”. È un rap più provinciale, probabilmente. I nuovi rapper di Milano non possono citarmi, per loro esistono solo i Club Dogo. Certo che se tutti quelli che li citano li avessero ascoltati veramente, altroché: solo dischi di platino avrebbero fatto!

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