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C’era una volta Dumbo, il king della street art milanese. L’intervista a Ivano Atzori

Chi è cresciuto nel capoluogo lombardo tra gli anni ’90 e i primi Duemila ricorderà i suoi celebri tag. L’artista è tornato in città per firmare “Milano Imperfecta”, una capsule collection disegnata per Iuter

Autore Tommaso Toma
  • Il27 Giugno 2023
C’era una volta Dumbo, il king della street art milanese. L’intervista a Ivano Atzori

Ivano Atzori, aka Dumbo, in una foto d'epoca a San Donato

Per me era solo Ivano, un amico della mia antica redazione di Rodeo, dove lui arrivava quando era di passaggio dalla sua base a New York. Ci fermavamo nel bar del Superstudio a parlare di J Dilla, Dr. Dre e dei Beastie Boys. Solo per pura casualità, quando tra un’ordinazione e un’altra, sentii la voce di Jovanotti che esclamava “Grande Ivano, devo passare da King Kong (un famoso negozio da lui aperto nel 2001, ndr) e Dumbo è sempre nel mio cuore”, associai Ivano a quel tag.

Era in effetti il king della street art meneghina. La scritta “DUMBO” è stata una presenza costante tra le vie delle periferie di Milano (non parliamo poi di quella sud) tra gli anni ’90 e gli inizi del nuovo millennio. Ma le azioni con la bomboletta di Ivano che si traducevano in quelle cinque lettere alla fine ti accompagnavano nei percorsi cementizi che andavano dalle periferie al centro città. Era l’araldica contemporanea – poco nobile, molto da guerriglia.

Tra le sue conversazioni dell’epoca (penso fosse tra il 2004 e il 2005) percepii un senso d’insoddisfazione per questa metropoli. O meglio, di una sua inadeguatezza verso le trasformazioni in atto. Infatti Ivano Atzori sparì dai radar della nostra redazione e decise di trasferirsi nel sudovest della Sardegna, sua terra di origine e dove ha base il suo studio creativo Pretziada.

Dumbo - Ivano Atzori - intervista - Iuter - capsule collection - foto d'epoca scattata sulla MM2
Foto d’epoca di Dumbo scattata sulla MM2

Il ritorno a Milano

Da pochissimo l’ho sentito di nuovo in occasione del suo ritorno nella sua amata-odiata Milano. Infatti da poco è in circolazione una sua capsule collection nata per celebrare i 20 anni di Iuter. Si chiama guarda caso Milano Imperfecta. È l’ennesimo tassello che si aggiunge alla pratica-ricerca di Ivano Atzori.

Milano Imperfecta è una collezione che, oltre al rapporto fra centro e periferia che fu caro a Ivano/Dumbo, vuole porre al centro dell’attenzione il potere delle relazioni umane.

È in nome di quella lontana amicizia che, in questa intervista a Ivano Atzori, uno dei numi tutelari del writing a Milano, gli chiederò quasi solo di musica.

L’intervista a Dumbo

Che piacere ritrovarti, Ivano. Vorrei ripartire da quelle lontane conversazioni: parliamo di musica?

Certo.

Allora vorrei innanzitutto capire cosa ti è piaciuto e cosa ti piace oggi.

Come puoi immaginare, i gusti cambiano e si alternano in base ai luoghi e contesti che una persona vive. Stati d’animo, relazioni che ti contaminano. Ma, come sai, ho amato e mi piace ancora il rap. Più di altri generi mi agita, mi scuote, mi fa muovere. Ho iniziato molto presto ad allontanarmi dalla musica psichedelica. Dico questo perché mio padre la adorava e io non sopportavo quei lunghi assoli di chitarra. Jimi Hendrix era l’unico che riuscivo – e tuttora riesco – ad apprezzare.

Sicuramente mio padre mi ha aperto a possibilità molto interessanti e diverse tra loro. A ruota mi vengono in mente i Corvi, Peter Tosh, Bob Marley, Joe Tex e sicuramente in modo massiccio James Brown. E poi Miles Davis, Louis Armstrong, Simon and Garfunkel e poi ancora Aretha Franklin… Questo mi ha permesso di avvicinarmi a un’estetica visiva e sonora come quella della black music. Successe in modo travolgente.

Da ragazzino poi affogavo il mio tempo nel rap americano anni ’90. Per decenni tutto ciò che usciva da New York era prezioso. Io e il mio gruppo di amici ci circondavamo di questi suoni, che erano anche nelle metriche e nelle liriche una potente espressione di marginalità mista a rabbia. L’album SxM dei Sangue Misto – era il 1994 – mi fece capire che qualcosa stava accadendo anche qui.

Mi spostai a Londra, nel quartiere di Shepherd’s Bush ed entrai in contatto con la cultura giamaicana. Ascoltavo ska, rocksteady, fino ad arrivare alla dub e alla dancehall. Le nuove generazioni mi ipnotizzavano con la jungle e la drum and bass, che si nutrivano del reggae attraverso i sample.

Oggi mi colpiscono il grime e le radio pirata che lo hanno diffuso. Suscita in me un grande interesse non solo musicale ma anche sociale e antropologico.

Ma poi hai anche messo su famiglia e ti sei trasferito in Sardegna…

La nascita dei miei figli mi ha sottratto letteralmente alla musica. Non avevo più la capacità di “arrestare” le melodie e parole che mi colpivano, come ero solito riuscire. In quegli anni mi sono immerso nel cinema, ero parecchio carente. Il neorealismo, grazie all’insistenza di Kyre (Chenven, sua moglie, ndr) non mi ha permesso altre distrazioni.

Ora che ti parlo di queste referenze, posso vedere un parallelo tra il rap di strada e la golden age del cinema italiano. Tutto riprese magicamente con la crescita dei ragazzi. Conversazioni e punti di vista hanno permeato casa nostra.

Leroy e Antioca, 17 anni lui e 14 lei, mi lanciano costanti proposte musicali. La musica ci unisce. Vogliono capire il ruolo dei testi dei Public Enemy, delle produzioni di Dr. Dre, lo stile di vita dei Mobb Depp e la positività di Talib Kweli, la capacità imprenditoriale di Jay-Z, Erykah Badu… Nel frattempo mi propongono di ascoltare Drake, Mac Miller, Tyler the Creator, che ancora fatico ad apprezzare per la sua ruvidità.

Nelle serate più serene io e Kyre apprezziamo molto il jazz, anche sperimentale se non eccessivamente caotico e nervoso, e il soul anni ’60, fino ad arrivare agli anni ‘40. Satie accompagna le cene tra amici. Ma se il tasso alcolico si impenna, ammetto di tornare spesso a quel rap anni ’90, il primo amore.

Cos’è il writing oggi?

Continua a modellare le città insieme all’ architettura, senza dimenticare il ruolo degli spazi verdi. La forza del writing plasma l’immaginario collettivo. È una forza inarrestabile.

A differenza dei muri destinati a decorazioni e illustrazioni di approccio muralista, io rimango affascinato dall’adrenalina, dallo sfogo, dalla necessità di catturare attenzioni anche attraverso l’illegalità. Tag, bombing… sono gli strumenti che mi permettono di capire quanto una città sia viva e sensuale.

Perché hai scelto questo nome, Milano Imperfecta, per la capsule collection con Iuter? Sottende anche un conto in sospeso con questa città che avevi lasciato?

Milano Imperfecta voleva essere voce del mio stato d’animo e contemporaneamente la voce di molte persone che sentono il peso della loro “imperfezione” rara, unica, speciale ma mai presa in considerazione da una società che ci costringe ad aver paura di dire chi siamo e cosa vogliamo realmente.

Milano deve accettare queste voci. Perché all’interno di questa comunità imperfetta ci sono pensatori, creativi, artisti, musicisti e così via. Una comunità vasta, brulicante, che produce storie fantastiche che rallentano l’avanzata dell’omologazione e la degenerata trasformazione milanese.

Milano mi ha ripudiato per anni. Ivano Atzori disadattato ma vendibile. Problematico ma comunicabile. Questa è Milano: uno scaffale da riempire costantemente di storie artificiali.

Milano Imperfecta - Dumbo - Iuter
Dalla capsule collection “Milano Imperfecta” firmata da Dumbo per Iuter
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