Interviste

Una donna che ha sposato la musica: intervista ad Emma per “Essere Qui”

A gennaio Emma ha pubblicato il suo quinto album in studio “Essere Qui”. Mentre si racconta ci tiene a spiegare bene quali sono i suoi punti di forza e di appoggio. Non nasconde le sue fragilità ma alza la voce quando si riduce la musica a un semplice prodotto da distribuire

Autore Giovanni Ferrari
  • Il15 Maggio 2018
Una donna che ha sposato la musica: intervista ad Emma per “Essere Qui”

Scegliere. Sembrerebbe questo il verbo che meglio si associa oggi a Emma, artista pragmatica, diretta e mai banale. Lo scorso gennaio ha pubblicato il suo quinto album in studio Essere Qui (Universal Music) anticipato dal singolo L’Isola. Mentre si racconta ci tiene a spiegare bene quali sono i suoi punti di forza e di appoggio. Non nasconde le sue fragilità ma alza la voce quando si riduce la musica a un semplice prodotto da distribuire. Ripercorre le scelte che ha preso. E le rivendica con orgoglio. Dopo due esperienze internazionali di spessore di cui è stata protagonista (lo scorso 21 aprile si è esibita in Giappone e il 25 aprile alla Billboard Latin Music Week a Las Vegas), dal 16 maggio Emma sarà in tour nei palazzetti italiani.

Emma (foto di Kat Irlin)

Hai detto che “in ogni album bisognerebbe trovare uno step in più”. Qual è stato il passo in avanti che hai fatto con Essere Qui?

Ce ne sono stati tanti. Ho preso scelte coraggiose, soprattutto in un momento come questo in Italia. È già tantissimo avere il coraggio di esprimersi senza essere condizionati al cento per cento da quello che il mondo esterno sta tentando di imporci. Poi ho cercato di avere un approccio diverso rispetto alle canzoni: il primo singolo L’Isola lo dimostra. Rappresenta mondi e linguaggi diversi rispetto a quelli che ho sempre percorso. Infine, ho deciso di lavorare con autori giovani. Anche questa è stata una scelta azzardata. Ma sia chiaro: sono cose azzardate solo per il mondo esterno. Per una ragazza come me che fa questo lavoro da vent’anni (e non solo dal 2010, anno in cui ho vinto Amici) non è altro che una crescita.

Hai scelto le canzoni di Essere Qui in base alle impressioni del primo ascolto. Quanto conta l’istintività nel lavoro che fai?

Per me l’istinto è tutto. Voglio credere che ci sono ancora persone che, come me, pensano che il cuore possa fare ancora la differenza in questo mestiere. L’istinto e la pancia sono tutto. Ho scelto le canzoni in base alle emozioni che mi sono arrivate. Non c’è nessuna strategia in questo disco: c’è solo la voglia di fare arte.

Essere Qui è il tuo quinto album in studio. Che tipo di sguardo hai nei confronti del tuo passato artistico?

Mi guardo indietro con lo sguardo dell’esperienza che mi ha permesso oggi di avere la capacità (e il coraggio) di scegliere i musicisti, il metodo di produzione. Ho scelto come arrangiare e produrre i pezzi, ho disegnato il palco sul quale salirò, ho scelto la scaletta, gli abiti e così via. Tutto questo nasce dall’esperienza che ho accumulato.

Hai raccontato che la prima cosa che serve per “essere qui” è rendersi conto di esserci, di esistere. Come sei arrivata a questa consapevolezza?

Essere Qui è un atto di ribellione. Avrei potuto benissimo chiamarlo Riot. Sono stata molto egoista in questo disco: ho messo in primo piano il mio benessere (psichico e artistico) e quindi ho scelto di fare una cosa che mi rappresentasse al cento per cento, in modo da sentirmi bene con me stessa. In questo momento è importante domandarmi quanto ancora valga la pena fare questo mestiere.

Te lo chiedi spesso?

Tutti i giorni. Con questo disco sto mettendo alla prova la mia resistenza a tutte le pressioni esterne che la musica ci sta imponendo in questi ultimi anni. Io sono cresciuta in un mondo nel quale la musica è sempre stata sinonimo di libertà di espressione. Voglio continuare a crescere e dire con i fatti che la musica è realmente questo. A volte essere liberi comporta grandi rischi, come quelli che mi sono presa io. E probabilmente ho anche preso dei pali.

A proposito di questo, c’è qualcosa che proprio non sopporti?

La leggerezza con la quale vengono giudicate le opere. Non sopporto il fatto che se un disco non schizza in vetta alle classifiche allora è necessariamente un flop. Ora tutto si basa sul fatto di essere primi a tutti i costi. Le cose vanno dette così come sono: non è mai successo che un mio disco uscisse e io non fossi prima per venti giorni in Fimi. Con Essere Qui è la prima volta che mi capita di non essere prima con un disco. Ma ti assicuro che è la prima volta che mi sento orgogliosa e felice di quello che ho fatto. In questo album c’è veramente il lavoro vero e c’è una mia presa di coscienza della musica. Non voglio fare un mea culpa: mi dispiace se qualcuno è rimasto deluso dai risultati, ma per quanto mi riguarda non sono mai stata così cazzuta e così pronta a toccare il fondo del barile come adesso. Questo disco è la svolta totale della mia carriera: lo vedremo nel tempo.

Pensi che oggi si sia perso anche il valore del tempo?

Sì. È ovvio che io voglia fare i dischi anche per venderli. Ma io voglio vendere verità e credo che la verità abbia bisogno di più tempo per venire fuori. Mi sento cresciuta anche in questo. Bisogna saper aspettare. Io soffro in silenzio e non mostro segni di cedimento: stavolta non mollo per un cazzo. Tutti si riempiono la bocca di verità, di cambiamenti. Ma cambiare vuol dire anche rischiare. A lungo termine questo disco mi ripagherà di tutti i sacrifici che ho fatto e che sto facendo.

Che cosa ti fa sentire fortunata?

Il fatto di essere circondata da persone come la mia manager Francesca che mi hanno dato più schiaffoni che carezze. Smettiamola di circondarci di “yes men”. La verità è fondamentale in questo mestiere. Per me la musica è una missione, un matrimonio. “Nella buona e nella cattiva sorte”. È facile essere felici quando va tutto bene. Ma prova a rimanere sposato quando tutto va giù a picco. Io non mi sono mai data piani B nella vita. Anche questa è una cosa che mi ha fatto diventare quella che sono. Non ho mai trovato nessun escamotage: nel bene e nel male sono sempre stata io. E ti dirò, prima ero solo istinto. Abbaiavo ma non mordevo. Ora invece ho raggiunto una lucidità particolare: forse sono diventata più pericolosa.

Fin dall’inizio della tua carriera hai collegato tante tue canzoni a tematiche importanti a livello sociale. Ci sono stati momenti in cui ti sei chiesta se ne valesse la pena esporsi così tanto?

Io l’ho sempre fatto. Mi sono sempre presa carico delle problematiche degli altri. Lo facevo anche a scuola: sono così di carattere. Non è il mestiere che ti cambia. Sei tu che cambi nel modo di fare il tuo mestiere. Io non dirò mai: «Questo lavoro mi ha portato a essere così». Sono io che ho portato il mio lavoro a esprimersi in forme diverse. Altrimenti, ragazzi, se divento addirittura schiava del mio lavoro, faccio altro.

Emma (foto di Kat Irlin)

Ci sono stati momenti in cui ti sei accorta di essere schiava del tuo lavoro?

Rischio tutti i giorni. Ma è una scelta tra il vivere in una comfort zone (e non rischiare mai niente) o il lanciarsi. Io, ad esempio, non ho mai voluto mettere catene o paletti. Non mi sono mai voluta definire come un’artista pop o rock. Magari il prossimo disco sarà di un mondo totalmente diverso da quello in cui sono ora. Sai qual è la verità? Che io soffro la noia in una maniera quasi clinica. E dato che alla fine il mio lavoro – fino a quando potrò (e vorrò) permetterlo – è l’unica cosa che ho, lo voglio gestire come meglio credo.

Proprio per questo motivo per Essere Qui hai deciso di collaborare con alcuni artisti che di solito non vengono subito collegati al tuo genere. Mi viene in mente ad esempio Paul Turner.

Sì, ma è un pensiero tipicamente italiano quello per cui io e lui non possiamo essere collegati. Nel nostro Paese si ragiona ancora a compartimenti stagni. Fortunatamente gli artisti internazionali sono molto più aperti. Il mio produttore Luca Mattioni, ad esempio, ha avuto l’idea di coinvolgere Paul Turner che ha sentito i pre-provini di Essere Qui e ha detto: «Per un’artista come lei vengo a suonare subito». Io fino all’ultimo momento ho pensato che fosse uno scherzo. Quando è arrivato in studio gli ho voluto chiedere perché avesse deciso di venire a suonare e mi ha detto: «I pezzi sono bellissimi e hai una voce che spacca». Per una come me che è cresciuta con le band, con i concerti, con i centri sociali, è una grande soddisfazione. Tra musicisti ci si annusa. Sicuramente è un’idea rétro rispetto ai tempi che viviamo, ma io sono molto romantica. Credo che prima o poi la musica tornerà a essere così come me l’hanno insegnata da bambina.

Che cosa intendi?

Prima avere una band e costruire delle canzoni aveva un valore. Partire per una tournée andava oltre al dichiarare dei sold-out. Io vivo così da quando sono piccola. La musica è nata per costruire sogni e secondo me ce lo stiamo dimenticando. La musica deve avere ancora quell’obiettivo. Deve costruire nuovi mondi. Deve risvegliare le coscienze delle persone. Deve ancora raccontare qualcosa. Io voglio ancora lavorare per questo. Non a caso sono stata in un capannone per provare tecnicamente le idee che voglio portare sul palco, per capire se è possibile fare quello che ho immaginato nella mia testa.

Cosa hai immaginato? Che show sarà?

Porterò una macchina che non è mai stata utilizzata in uno spettacolo italiano. Avevano tutti paura e giustamente prima di fare una spesa azzardata volevamo capire se fossi in grado di usarla. I rischi ci sono ma se mi comporterò come una persona lucida non succederà niente. Non ti posso dire altro: voglio tenere la sorpresa. Io guardo tutto, ascolto tutto, sono influenzata da tutto. Ho costruito lo show nella mia testa, ho deciso la forma del palco, il mood dello spettacolo. La band è molto gasata e ogni momento dello show sarà live: lo spettacolo è slegato completamente dall’utilizzo di macchine esterne. Io non sparirò mai dal palco, resterò comunque in qualche forma. Sono una pazza psicopatica, lo so.

Emma (foto di Kat Irlin)

Come coesistono l’album registrato in studio e lo spettacolo dal vivo?

È come se vivessi due vite parallele. La vita di quella che fa il disco e lo lancia sul mercato e la vita di chi, invece, fa i live. Ci sono persone che non vanno appositamente a comprare il disco fisico nel negozio (perché magari lo ascoltano nelle varie piattaforme) ma non si perdono un mio concerto per nulla al mondo. E viceversa. Nel mio caso ha funzionato molto una cosa che forse andava vent’anni fa: il passaparola. La gente – sentendo i brani in rotazione radiofonica – si fa un’idea di me, ma poi c’è il passaparola e non è raro trovare nei miei concerti gente con la maglietta dei Metallica. Io a dir la verità mi pongo sempre nella stessa maniera.

Cioè?

Faccio i dischi per come li voglio, per come li sento, e poi mi studio il live, mi invento uno show. Io sono sempre la stessa. Se devi modularti in base ai cambiamenti del pubblico, finisci per impazzire e perdi la tua realtà, la tua verità. Nel mio caso sono partita con un pubblico molto piccolo otto anni fa e sembra quasi un problema il fatto che oggi mi seguano persone abbastanza adulte. Sono passata da un momento in cui vendevo un boato di dischi e mi dicevano: «Eh vabbè, è perché fai televisione e i bambini piccoli che la guardano non capiscono niente di musica e comprano qualsiasi cosa che la televisione gli imbocca» a un altro in cui magari vendo qualcosa in meno e vengo criticata lo stesso. Io tra l’altro – follia! – sono uscita con il mio disco nel mese in cui stavano cambiando le classifiche. Fino all’altro ieri iTunes era la cosa più importante del mondo, perché “i dischi non si vendono più”. Ora, invece, ci fanno capire che “iTunes non serve più a niente” e, invece, “conta lo streaming”. Ma diamoci il tempo per capire! Ogni cosa ha il suo tempo. Bisogna fare arrivare questo concetto alle persone: la musica sta cambiando anche in questi termini. Ma attenzione: deve cambiare il metodo di fruizione e non il modo di fare musica. Io non voglio cambiare la mia attitudine di artista per rispecchiare un mercato che tra sei mesi cambierà un’altra volta. L’arte non deve accontentare il pubblico: deve creare, deve farci porre delle domande. Ha ancora senso la differenza tra il lavorare in digitale o in analogico? Ha ancora senso usare tre o quattro tipi diversi di chitarre? Ha ancora senso la qualità nel prodotto musicale? Secondo me sì. Anche perché dopo la moda c’è sempre l’arte.

Che rapporto ti lega a Billboard Italia?

È una nuova forma di comunicazione molto coraggiosa. Era da tanto che mancava. Penso che abbia chiuso una falla che c’era negli ultimi anni. Mancava una rivista prettamente artistica e musicale dove andare a scoprire le uscite dei dischi. Billboard è un progetto romantico. Oggi basta andare sui siti e trovi tutto, ma è bello poter tornare a questo. Quando ero piccola e abitavo nel Salento, per me l’unico modo per scoprire cosa stava succedendo nel mondo musicale era comprare una rivista dove trovavo interviste, immagini di concerti e testi. Billboard mi ha un po’ riportato indietro nel tempo. A quel preciso momento lì. In un momento in cui è tutto “mordi e fuggi”, è davvero figo poter toccare, sfogliare e leggere di musica in una rivista così.


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