Interviste

Lee Scratch Perry: intervista al “Salvador Dalì del reggae”

La sua figura troneggia negli annali della musica giamaicana: abbiamo intervistato il “Salvador Dalì del reggae”, Lee “Scratch” Perry

Autore Alberto Campo
  • Il12 Novembre 2018
Lee Scratch Perry: intervista al “Salvador Dalì del reggae”

Lee "Scratch" Perry - 1

Nonostante la veneranda età, Lee Scratch Perry prosegue imperterrito il proprio cammino artistico, sia pubblicando dischi con cadenza regolare – più recente in sequenza è Must Be Free del 2016, cui è seguita lo scorso anno una rielaborazione del classico datato 1976, Super Ape, realizzata insieme al collettivo newyorkese Subatomic Sound System – sia esibendosi dal vivo, com’è accaduto il 27 luglio a Siracusa, durante il festival Ortigia Sound System, pretesto della nostra conversazione. E sì che potrebbe riposare comodamente sugli allori: la sua figura troneggia infatti negli annali del reggae (basti ricordarne la produzione degli Wailers di Bob Marley a inizio carriera e il contributo determinante dato alla rivoluzione delle tecniche di registrazione attraverso il dub) e in generale della musica tutta (il pubblico rock certo non ne ha dimenticato la firma in calce al 45 giri dei Clash Complete Control).

Personaggio dal temperamento imprevedibile (nel 1983, spinto da un impeto di rabbia purificatrice, diede fuoco allo studio Black Ark, da lui stesso edificato nel 1973), il “Salvador Dalì del reggae” – come l’ha definito il collega inglese Adrian Sherwood – si è meritato nel 2008 un documentario a soggetto intitolato mutuando il suo nome di battaglia, The Upsetter (“il guastatore”), con Benicio Del Toro narratore e la regia degli statunitensi Ethan Higbee e Adam Bhala Lough, cui se n’è aggiunto un secondo nel 2015: Lee Scratch Perry’s Vision Of Paradise del filmmaker tedesco Volker Schaner.

Lee Scratch Perry - 2
Lee Scratch Perry

Dove trovi l’energia necessaria per continuare a esibirti dal vivo all’età di 82 anni?

L’energia viene direttamente dal mio cuore e quando sono sul palco ne ricevo altra dal pubblico. Lo dico rivolgendomi in particolare ai fan italiani, che esorto a continuare a credere nell’amore – perché così l’amore crederà in voi – e ad agire in modo retto, siccome dal bene nasce il bene e scaccia il male. In quel modo i vostri sogni si avvereranno.

Durante la tua lunga carriera hai attraversato l’intera storia della musica giamaicana, dallo ska al reggae e al dub: nei passaggi da una fase all’altra avevi piena consapevolezza del cambiamento in atto o è stata solo questione d’istinto?

Tutto quello che ho fatto è stato frutto dell’ispirazione, perciò non si può dire che io l’abbia pianificato. Diciamo che ho prestato attenzione a quanto percepivo intorno a me e alla voce interiore che mi parlava, spiegandomi cosa andava fatto e cosa no: così ho capito quando e in che modo cambiare la mia musica.

In quale momento ti sei reso conto che il reggae si sarebbe potuto diffondere anche fuori dalla Giamaica?

Credo nella Bibbia e da lì ho ricavato le indicazioni per fare tutto quello che ho fatto: in qualche modo la stessa affermazione del reggae nel mondo era scritta nel Grande Libro.

Sono trascorsi 35 anni dall’incendio che distrusse lo studio Black Ark a Kingston: che cosa ricordi di quell’evento? Lo stesso destino è toccato poi tre anni fa al Secret Laboratory, che avevi creato in Svizzera: una coincidenza?

Sono storie completamente diverse. Al Black Ark il Nero era troppo Nero e caricava il posto di negatività, così come facevano alcune delle persone che lo frequentavano, volendosene approfittare: la situazione era diventata insostenibile ed è per quella ragione che gli ho dato fuoco, volevo scacciare i demoni che lo affollavano. Il Secret Laboratory era una specie di Arca Bianca, invece, serviva a riequilibrare quell’aspetto della mia vita, anche perché nel frattempo era cambiato il colore della pelle della maggioranza dei miei fan: prima erano in prevalenza neri, adesso invece sono bianchi. È andato distrutto per un banale e malaugurato incidente: mi sono dimenticato una candela accesa e tutto è finito in fumo, dalle apparecchiature agli abiti di scena, dischi, libri, ore e ore di materiale registrato…

Lee Scratch Perry in Svizzera. Einsiedeln il 1 giugno 2018 foto di Felix Bassler
Lee Scratch Perry in Svizzera ad Einsiedeln il 1° giugno 2018 (foto di Felix Bassler)

Dal 1989 vivi nei dintorni di Zurigo: all’apparenza un posto agli antipodi rispetto alla Giamaica. Perché quella scelta? Ti manca qualcosa del tuo Paese?

Cercavo un luogo meno stressante, dove avere meno pressione addosso. Con le sue montagne e i ghiacciai la Svizzera è un posto quieto, ma soprattutto mia moglie Mireille è originaria di là. Forse c’è qualcosa che mi manca della Giamaica, ma quando capita che ne abbia nostalgia ci vado per qualche giorno e me la faccio passare.

Nel corso del tempo hai collaborato con alcuni giganti della musica, da Bob Marley ai Beastie Boys passando per Paul McCartney e i Clash. Che esperienze sono state? Ce n’è una che ricordi con maggiore piacere?

Sono state tutte quante molto gradevoli, vissute nel nome dell’amore, della pace e dell’armonia. Quando buone persone s’incontrano, le cose non possono che andare bene e dare risultati soddisfacenti. Più c’è unione, più c’è felicità. Davvero non saprei sceglierne una in particolare: sono state tutte fantastiche.

Il produttore inglese Adrian Sherwood, con cui hai lavorato in passato, ti ha chiamato “il Salvador Dalì del reggae”: in che modo interpreti quella definizione?

Bisognerebbe chiederlo a lui: è ciò che ha detto, segno che lo pensa, ne ho preso atto e ovviamente mi lusinga.

Ascolti la musica giamaicana contemporanea? C’è qualche giovane artista di tuo gradimento?

Non molta, a essere sincero. Tra i giovani, comunque, apprezzo Vybz Kartel, Tommy Lee Sparta, Busy Signal e soprattutto Alkaline, un tipo in gamba. Detto questo, non mi piace chi canta di armi e violenza, preferisco quando nei testi prevalgono le buone vibrazioni.

In senso più generale, quali generi musicali prediligi attualmente?

Ascolto un po’ di tutto: soul, blues, jazz, hip hop e reggaeton, che forse è la cosa che mi piace di più.

Per finire, puoi indicarmi tre tuoi dischi o singoli brani da cui ti senti rappresentato più di altri?

Direi l’album Blackboard Jungle del 1973, Chase the Devil, canzone che scrissi nel 1976 per Max Romeo, e Punky Reggae Party, composta un anno dopo per Bob Marley.

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