Interviste

Fino all’infinito: intervista con Eminem e Paul Rosenberg, CEO di Def Jam

Negli ultimi vent’anni Paul Rosenberg ha portato Eminem a vette da record. Ora che il supermanager comincia il suo dream job come CEO della Def Jam, parla con il suo amico di vecchia data dei loro inizi squattrinati, dei molti alti e bassi e di cosa fa grande un rapper

Autore Billboard US
  • Il15 Marzo 2018
Fino all’infinito: intervista con Eminem e Paul Rosenberg, CEO di Def Jam

Appollaiato al secondo piano open space di uno studio fotografico, Eminem si sporge oltre la balaustra per rivolgersi al suo manager di vecchia data, Paul Rosenberg, al piano di sotto, che prova le sue angolature migliori mentre gli scattano un ritratto. «Yo, Paul! Mi firmeresti un CD quando hai finito?», gli dice con la faccia oscurata da un cappello da baseball. «La gente è in delirio!».

Eminem e Paul Rosenberg (foto di Sami Drasin)

La stanza si riempie di risate ed Em scompare di nuovo nel loft. È gennaio a Detroit – non proprio l’idea di paradiso – ma per il 45enne MC che risponde al nome di Marshall Mathers la città è casa e rifugio: sia il luogo dove è nato il suo mito sia uno scudo contro i riflettori puntati che derivano dallo status di uno dei rapper più famosi del pianeta. Proprio a Detroit Marshall – come tutti lo conoscono qui – conobbe Paul Rosenberg nel 1996, quando era un aspirante rapper sull’orlo della rinuncia e Rosenberg era uno studente di giurisprudenza con un occhio puntato sul music business. Cominciarono a lavorare insieme l’anno seguente e ora, dopo oltre vent’anni, sono tornati a Detroit con qualifiche completamente diverse: Eminem, 15 volte vincitore di Grammy Awards e quasi certamente il rapper con più dischi venduti di tutti i tempi (47.7 milioni di album solo negli Stati Uniti, secondo Nielsen Music); Rosenberg, manager musicale d’élite, proprietario di etichette e, dal 1° gennaio, il nuovo CEO di Def Jam Recordings.


Tre settimane prima, Eminem aveva pubblicato il primo nuovo album dopo quattro anni, Revival, un mix di riflessioni, gioia per le disgrazie altri e abilità lirica che ha fatto di lui l’unico artista nella storia a uscire con otto album di fila direttamente alla prima posizione della Billboard 200. Ha anche messo fine alla sua più lunga pausa fra un album e l’altro da quando la dipendenza da un farmaco lo costrinse a prendersi un’interruzione di cinque anni all’apice della sua carriera: un periodo che include un’overdose di metadone nel 2007 (ricordata in Revival nel brano Arose) che quasi lo uccise. Dal suo ritorno con Relapse del 2009 e Recovery del 2010, Eminem ha scelto di di evitare i riflettori, felice di essere un J.D. Salinger dell’hip hop che scrive canzoni per la playlist Spotify di Holden Caulfield.

Quel periodo di inattività diede a Rosenberg, oggi 46enne, la possibilità di stabilizzare la propria carriera. Quest’orso di 2 metri di altezza dal temperamento calmo è un naturale narratore ed è inaspettatamente divertente, per non dire un professore di hip hop classico che riempie le conversazioni con aneddoti sulla Duck Down Records e digressioni sul migliore brano di Slick Rick (per Rosenberg è La Di Da Di o Mona Lisa; Eminem ribatte con Lick the Balls o Children’s Story). Socio di Eminem alla Shady Records, una joint venture con Interscope, Rosenberg cominciò a pensare “quattro o cinque anni fa” alla creazione di un’etichetta separata per lavorare con artisti non in linea con il brand Shady. Parlò dell’idea con Universal Music Group ma il CEO Lucian Grainge gli fece una controproposta: mettere nelle sue mani le redini della Def Jam (Steve Bartels, CEO di Def Jam dalla rottura con la Island nell’aprile 2014, si è dimesso a dicembre 2017).


«Da molti punti di vista è un sogno che si realizza», dice Rosenberg. Quel sogno – sostiene – dipenderà dal ritorno della label a quelli che vede come i suoi quattro pilastri originari: originalità, autenticità, artisti di punta e un’immagine dei rapper come rock star. «Def Jam è la migliore etichetta hip hop mai esistita. Non credo ci sia molto da ridire al riguardo – continua – Non voglio che nessuno pensi che intenda farne una label hip hop vecchia maniera perché non è il mio scopo. Voglio perseguire quel piano nel futuro con il tipo di artisti che esiste ora».

Prima che Rosenberg si concentrasse sul suo nuovo corso, comunque, era tornato a Detroit per lanciare l’album di Eminem. Revival è stato accolto il 15 dicembre con le consuete critiche per la misoginia e il sessismo (o, per alcuni, la scorrettezza politica) che rimangono nei suoi testi e allo stesso modo ha polarizzato le reazioni ai feroci attacchi – cominciati a ottobre con il suo esplosivo freestyle ai BET Hip Hop Awards, The Storm – a Donald Trump, la cui base di consenso incrocia quella di Eminem. «So di dire un sacco di cazzate», ammette Eminem in un momento di sincerità, sprofondato in un divano di pelle insieme a Rosenberg dopo lo shoot fotografico. «Ma gran parte di quelle è detta per scherzare, ironicamente, ed è sempre stato così in tutta la mia carriera – spararle grosse per ottenere una reazione dalle persone. È la mia licenza artistica per esprimermi. Mi risulta che Trump non sia un artista e non abbia una tale licenza».

Preoccupato com’è riguardo a Trump, Eminem desidera anche lasciar risplendere Rosenberg. Seduto per quest’intervista, interrompe il suo manager durante una caratteristica riflessione sulla liricità di KRS-One: «Ehi, ragazzi, fatemi sapere quando volete fare l’intervista. Lo so che è il tuo show, voglio solo supportarti quando cominciamo…».

Eminem e Paul Rosenberg (foto di Sami Drasin)

Come descrivereste la vostra dinamica?


[Rosenberg] Ho cominciato ufficialmente a lavorare con lui nel ’97, quindi questo è il 20esimo anno: vent’anni nel business insieme e di amicizia.

[Eminem] Vent’anni d’inferno (ride, ndr).

[R] Ci sono momenti in cui è tutto estremamente serio e intenso e altri in cui è leggero e, oserei dire, adolescenziale.

[E] “Oserei dire”…


Come vi siete conosciuti?

[R] Quando studiavo legge a Detroit andavo in questo posto chiamato Hip Hop Shop, che stava sulla 7 Mile Road. Era un negozio d’abbigliamento che si trasformava il sabato in un open mic per le battle di freestyle. Un giorno Proof (rapper di Detroit e amico di Eminem, ndr) mi prese da parte e disse: «Ehi, voglio che oggi tu ti trattenga dopo l’open mic così conosci il mio amico».

[E] Avevo smesso di rappare forse da sei, sette mesi. Sentivo che la cosa non stava andando da nessuna parte. Vivevamo nel sottotetto della casa della mamma di Kim, che avevamo trasformato in una stanza. Proof mi chiamò e disse qualcosa come: «Yo, scrivi qualcosa, vieni qui domani e rappa. Se non ti piace non dovrai farlo più». C’erano dieci o quindici persone. Non ricordo di averti incontrato quel giorno.

[R] Io ricordo che ti presentasti con Kim (Mathers, l’ex moglie di Eminem; adesso è Scott, ndr). Indossavi una tuta bianca.


[E] Sì, la mettevo sempre! Rappai ed ebbi buoni riscontri. Da quel momento cominciai a scrivere di nuovo.

[R] Alcuni mesi dopo facesti uscire Infinite (l’esordio indipendente, ndr), che comprai da te su cassetta per una cosa come sei dollari.

Cosa vi ha portato a lavorare insieme?

[R] Lo consideravo di grande talento ma a quell’epoca non aveva ancora un’idea di chi fosse come artista. Cercava di imitare gli altri…


[E] …Non cercavo di imitare gli altri. Beh, un po’ sì (ride, ndr). Ero una via di mezzo fra AZ, Nas, Souls of Mischief, Redman, tutto il grande hip hop che andava allora.

[R] Mi trasferii a New York, cominciai a studiare per l’esame ma rimasi in contatto con tutti quelli della scena musicale di Detroit. A un certo punto, un amico mi disse: «Devi sentire le nuove cose che sta facendo Eminem». Mi procurai la cassetta, l’ascoltai e rimasi senza parole. Capii che aveva trovato la sua voce, aveva smesso di essere così consapevole di sé. Così chiamai e chiesi se potevo rappresentarlo in quanto manager.

Quali storie di allora vi ricordate?

[E] Stavo registrando con gli Outsidaz, giusto scrivendo un po’ di rime. Stavano cominciando a ricevere grandi attenzioni. E mi fecero aprire con loro un concerto dei Wu-Tang Clan.


[R] Era a Staten Island al Park Hill Day – lo facevano ogni estate. Gli Outsidaz fecero la performance e quando si presentarono i Wu-Tang scoppiò una grossa rissa. Method Man saltò dalle casse nella folla. Credo che qualcuno sparò un colpo in aria e cominciò una fuga di massa. Marshall mi guardò, io guardai lui e uno di noi urlò: “Corri!” (ridono entrambi, ndr). In un’altra occasione io vivevo a Jersey City e avevo un po’ di coinquilini, ma avevamo una grossa sala nell’appartamento dopo c’erano un divano e una TV – lì avrebbe dormito Marsall.

[E] C’erano scarafaggi grandi quanto fottuti topi. Dormii in quella stanza con il materasso sul pavimento, mi svegliai la mattina dopo e sentii arrivare lo scarafaggio prima ancora di vederlo! Non ho mai visto un cazzo di scarafaggio così grosso in vita mia, era come un umano. E quando lo schiacciai, urlò! Del tipo: “Ahhh, mi uccidi! Craaac!”.

[R] Quello era nel mio appartamento a Queens, parlo di quello che successe dopo. Il disco (The Slim Shady LP, ndr) stava per uscire e avevamo appena finito di girare il video di My Name Is – sempre squattrinati, sempre a dormire sul divano. Un giorno guardavamo MTV e mandarono in onda il video. Era la prima volta che lo vedevamo in TV. Pensammo di avercela fatta: “Oddio, ce ne andiamo di qui!”.

[E] Non so se pensai quello ma di sicuro mi dissi: “Sta succedendo davvero?”. Era così surreale che mi sentivo confuso tutto il tempo. Ci ero andato vicino così tante volte che pensavo quasi: “Questo è troppo bello per essere vero”.


C’è stato un momento in cui ti sei reso conto di avercela fatta davvero?

[E] Avevo appena firmato un contratto e andavamo avanti e indietro da Los Angeles. Mia mamma aveva una roulotte a Detroit. La gente sapeva che io stavo nella roulotte perché andavo a giocare a basket al parco lì vicino. Ma quando fecero due più due, fu un continuo bussare alla porta. Era subito dopo che il video era uscito. E stavo impazzendo! Del tipo: “Oh cazzo, credo che stia succedendo davvero”.

Come si è evoluta la vostra amicizia?

[E] Lo odio solo di più (Rosenberg ride, ndr). Abbiamo superato un sacco di momenti di merda, alti e bassi – uscite di album, la mia overdose…


[R] Lamentele, vita e morte. Di solito lui si arrabbia perché taglio i suoi testi dopo che li ha scritti e lui mi fa: “Ah, bene! Adesso me lo dici?”.

[E] Disseziona e taglia le mie cose costantemente. Come il resto del mondo.

Dov’eravate la sera delle elezioni?

[E] Stavo guardando la TV incredulo. Ero nel mio seminterrato e il telefono squillava continuamente con i miei amici che dicevano: “Cazzo, vincerà lui”.


[R] Sapevo che Trump avrebbe vinto. C’era molta apatia fra gli elettori e questo non era nulla di buono.

[E] L’ho percepito dai comizi che faceva quando cominciò a correre per la presidenza. Solo a vedere l’impatto che aveva, quelli erano fanatici. Bisogna dire qualcosa riguardo al tipo di persone che davvero credevano che avrebbe fatto qualcosa per loro – e lui ha semplicemente beffato tutti. Mi rendo conto che Hillary aveva i suoi difetti, ma sai cosa? Chiunque altro sarebbe stato meglio di Trump. Uno stronzo sarebbe stato meglio come presidente. Quando ho pubblicato The Storm (il freestyle anti-Trump uscito a ottobre, ndr) ho realizzato che a tutti quelli che lo supportavano in quel momento in ogni caso non piace la mia musica. Capisco il paragone riguardo alla scorrettezza politica ma a parte quello siamo agli antipodi. Ha fatto credere a queste persone che avrebbe davvero fatto qualcosa per loro. È disgustoso quanto il suo linguaggio sia provocatorio, la sua retorica, le stronzate su Charlottesville. A guardarlo pensi: “Non posso credere che stia dicendo questo”.

Dal video di “The Storm”

Ti hanno sorpreso le reazioni a The Storm?

[E] Sì e no. Sapevo che ci sarebbero state, ovviamente. È per questo che rappo. Ma quel messaggio veniva genuinamente dal mio cuore. Non direi che in cuor mio provo odio per lui, ma senz’altro grosso disprezzo.


[R] Quando l’ho sentita sapevo che ci sarebbero state opinioni contrastanti. Ma è per questo che faccio quello che faccio: suscitare reazioni nelle persone attraverso l’arte. Preferisco che qualcosa sia dibattuto piuttosto che ignorato dalle persone.

Paul, tu stai subentrando in Def Jam. Cosa significa questo per la Shady Records?

[R] Il punto della Shade Records è che è il brand di Marshall sotto tanti aspetti. Il materiale che firmiamo e pubblichiamo deve rientrare nel suo mondo. Non ha mai avuto l’intenzione di essere qualcosa di più di un’etichetta-boutique, motivo per cui l’abbiamo sempre mantenuta piccola. Finché Marshall vorrà mettere a contratto, far crescere e pubblicare talenti, la Shady continuerà ad esistere.

Marshall, come trovi i nuovi artisti? Usi lo streaming?


[R] Oggigiorno ha un iPad.

[E] Guardo sempre com’è il clima. Mi considero molto più sul pezzo di quanto molte persone credano.

Con lo streaming sembra che l’asticella per diventare un rapper di successo si sia abbassata. Siete d’accordo?

[E] Dipende. Penso che rapper come J. Cole, Kendrick Lamar e Joyner Lucas facciano rap per essere i migliori. È quello che ho sempre cercato di fare. Alcune persone potrebbero fregarsene di essere il meglio e semplicemente sapere come fare buone canzoni – e alcuni ne fanno di orribili (ride, ndr). Comunque l’hip hop è in costante evoluzione.


[R] Il punto non è tanto che la qualità si sia abbassata: è piuttosto il fatto che oggi hai la possibilità di pubblicare cose che magari prima la gente non avrebbe ascoltato perché non erano abbastanza buone.

[E]
Il mercato è così saturo al momento che ha accorciato l’arco di vita dei dischi: una cosa è qui per un giorno e poi scompare. Ti svegli e le persone ti fanno: “Ok, cosa farai uscire adesso?”. Cosa credi, che abbia fatto il mio album la scorsa notte?

Quali sono i vostri obiettivi quest’anno?

[R] Io devo capire come bilanciare il mio lavoro da manager, il mio ruolo con Marshall alla Shady e la grossa responsabilità della Def Jam. Se trovo questo equilibrio penso che andrà tutto bene, perché sono sicuro di poter fare bene il lavoro. Devo solo trovare il giusto mix di tempo, energia e concentrazione per riuscire a fare tutto ed essere umano e avere una famiglia.

[E] Non saprei dare una risposta per me in questo momento. Sono ancora in modalità da scrittura.


Articolo di Dan Rys pubblicato su Billboard USA

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