Interviste

Il rock politico di Yungblud: «Voglio far pensare le persone» – Intervista

A prima vista questo ragazzo del nord dell’Inghilterra sembra un teen idol come tanti. In realtà Yungblud è molto di più: le sue canzoni hanno un forte messaggio politico-sociale e lui ha un’idea chiarissima di cosa la musica debba comunicare

Autore Federico Durante
  • Il6 Marzo 2018
Il rock politico di Yungblud: «Voglio far pensare le persone» – Intervista

A prima vista questo ragazzo del nord dell’Inghilterra sembra uno dei tanti teen idol con una chitarra in braccio e una manciata di canzoni catchy. In realtà Yungblud – nome d’arte di Dominic Harris, neanche 20 anni – è molto di più: le sue canzoni hanno un forte messaggio politico-sociale e lui ha un’idea chiarissima di cosa la musica debba comunicare. Basta scorrere le tematiche della tracklist del suo EP d’esordio, l’omonimo YUNGBLUD, per capire che Dominic rappresenta quasi un unicum fra i suoi coetanei: la critica al governo sull’utilizzo della spesa pubblica in King Charles; una moderna versione “urbana” della storia di Romeo e Giulietta in I Love You, Will You Marry Me; un pezzo contro la speculazione edilizia, Tin Pan Boy; uno contro le molestie e la violenza sessuale, Polygraph Eyes; infine uno sulla “diversità” di chi soffre di ADHD (Attention Deficit Hyperactivity Disorder). Unico obiettivo dichiarato: far pensare le persone.

La tua musica è piena di tematiche sociali, una cosa un po’ d’altri tempi: era così che faceva gente come i Clash e Bob Marley. Qual è lo scopo delle tue canzoni?

Voglio solo che le persone pensino. La musica – e in particolare il rock and roll – è diventata talmente noiosa… Non parla di niente. Io amo la musica “urbana” perché mi permette di rappresentare qualcosa e di parlare di problemi reali. In questo momento il mondo è un posto davvero confuso per la gente. Noi abbiamo in mente il futuro che vogliamo. Vediamo questo mondo liberale – in cui vogliamo vivere – ma è retto da generazioni di persone che non necessariamente ci capiscono. La politica non è mai stata tanto importante. Io canto di ciò che mi fa arrabbiare e dico quello che penso.

La copertina del tuo EP ti raffigura quasi come una strega sul rogo. Cosa rappresenta?

Rappresenta un po’ di cose. Per esempio gli anni della mia crescita, perché io ho un sacco di energia e per questo ero spesso frainteso. Era un po’ un bruciare come una strega: da un lato perché ho molto “fuoco”, molta rabbia, dall’altro lato perché le streghe venivano bruciate in quanto “matte”. Ed è una cosa molto comune nella mia generazione: puoi pensare che io sia pazzo perché voglio sposare un uomo, oppure perché voglio abortire per salvare il mio futuro. Volevo rappresentare la rabbia e l’emozione che provo e il fatto che tu mi “bruci vivo” solo perché non sei d’accordo con quello che dico.

Qual è stato il tuo percorso artistico prima della pubblicazione di questo EP?

Sono cresciuto in una famiglia molto musicale, ascoltando molta musica. Nella mia famiglia la musica c’era sempre in sottofondo. Ho iniziato a suonare la chitarra molto presto. Inizialmente mi sono trasferito a Londra per andare alla scuola d’arte. Ma poi l’ho lasciata perché non mi capivano, mi dicevano in che modo dovevo creare. Semplicemente dicevo quello che pensavo. Dopodiché ho provato a facilitare questa carriera che è la musica. E mi sono un po’ perso: ho avuto produttori e songwriter che magari mi davano quindici diverse opinioni su quello che loro pensavano che io dovessi essere o che io dovessi cantare. E dopo un paio di anni in cui provavo a scrivere quello che mi avrebbe portato in radio ho cominciato a sentirmi smarrito. Tutto ciò era diventato vacuo per me: le canzoni che scrivevo non rappresentavano quello che ascoltavo sull’iPhone fra una sessione e l’altra. Ho provato tanta rabbia. Poi ho compiuto 18 anni e il referendum sulla Brexit è stato la mia prima opportunità per votare e per far sentire la mia voce. Ho votato per restare in Europa. La voce dei giovani è portata via da una generazione più vecchia che non farà alcuna differenza per noi. Ho come sentito che la mia voce fosse calpestata. Così ho scritto King Charles. E dopo quella ho scritto I Love You, Will You Marry Me. E poi le canzoni hanno cominciato a venir fuori. Così ho capito esattamente cosa volevo fare e cosa volevo dire – e da allora non ho mai smesso.

In King Charles dici: “It’s really scary being under 21”. Perché fa paura?

Il mio pensiero iniziale è stato questo: il mio governo può finanziare gli armamenti e spenderci un sacco di soldi, mentre io ho 19 anni e non posso andare gratuitamente all’università nel mio Paese. Questo per me è spaventoso. Oppure prendi l’America, dove in alcuni stati stanno pensando di rendere illegale l’aborto. Ovviamente non è detto che accada, però intanto ne parlano. È a cose come queste che la maggioranza dei giovani è completamente contro. Lottiamo per un mondo liberale e anche solo parlare di rendere illegale l’aborto è qualcosa che va indietro nella storia e nel tempo.

Ho letto che ti piace molto Lorde. Pensi di avere qualcosa in comune con lei?

La adoro per il fatto che è fondamentalmente se stessa e diversa, a modo suo. Lei è davvero un simbolo dell’empowerment femminile in questo momento. È una ragazza davvero tosta, che ha le sue idee, il suo modo di pensare e non ha paura di dire quello che pensa. Questo mi ispira molto perché anch’io voglio dire quello che penso – voglio che la gente dica quello che pensa. Non voglio dire alle persone cosa pensare: non ho risposte, dico solo quello che io penso e incoraggio le persone a dire quello che loro pensano. Per questo lei mi ispira così tanto.

Trovo – ma non è solo la mia opinione – che la tua musica mostri forti influenze dall’alternative rock britannico dei primi anni ’00, come quello degli Arctic Monkeys. Cosa trovi affascinante in quel tipo di sound e di musica?

Mi piace essere paragonato agli Arctic Monkeys perché anch’io sono del nord dell’Inghilterra. Loro hanno un enorme seguito nel Regno Unito. Alex Turner (il frontman della band, ndr) è stato una delle persone che mi hanno capito da adolescente. Ha dipinto un’immagine del nord che era molto veritiera e fondamentalmente nelle sue canzoni ha raccontato la mia infanzia. Ho ascoltato molto anche una band come i The Kooks. Quelli erano i ragazzi della guitar music ai tempi in cui imparavo a suonare la chitarra. Ma sono anche rimasto incantato da Eminem. Lui e Alex Turner erano le uniche due persone al mondo che mi capissero perché parlavano di problemi veri. Penso che la guitar music sia morta oggi, o comunque non rappresenta niente: mi sembrano solo teste di cazzo in giacche di pelle che cantano canzoni sul nulla. Quando dico che il rock and roll è morto intendo questo: adesso mi metto a dormire e aspetto che qualcuno mi svegli un minimo…

Parlando di Polygraph Eyes: hai detto in un’intervista che è la canzone di cui vai più orgoglioso – e credo anche che molte persone lo siano di te. Cosa in particolare ti rende così orgoglioso? E perché pensi che la canzone abbia fatto parlare così tanto di sé?

Quella canzone era una grande sfida. Era da un po’ che volevo scrivere sull’argomento, ma avevo bisogno che fosse una cosa perfetta e che avesse l’aspetto che desideravo. È qualcosa con cui sono cresciuto: quando da adolescente cominci a uscire la sera vedi queste situazioni di merda. Vedi ragazze sbronze allontanarsi con ragazzi che non sono neanche lontanamente ubriachi come loro. Ma la cosa che mi ha fatto incazzare è che non ho realizzato quanto fosse fondamentalmente sbagliato fino a quando non sono cresciuto un po’, perché siamo circondati da questa visione secondo cui una simile mentalità da rimorchio è accettata e tutto sommato normale. E questo è maledettamente sbagliato per me. Così avevo bisogno di scrivere una canzone che parlasse della questione da un punto di vista maschile: se una ragazza indossa una minigonna, se si sbronza, ciò non ti dà il diritto di approfittartene. L’ho scritta un anno fa, alla fine dell’EP. Tutto il resto era piuttosto punk, come King Charles, così ho voluto marcare la differenza anche dal punto di vista sonoro. Quando abbiamo scelto le canzoni da mettere sull’EP ho detto che quella ci doveva assolutamente essere, perché trovo il movimento del female empowerment stupendo e di grande ispirazione. Alcune ragazze mi hanno mandato messaggi su Instagram come: “È successo anche a me. Mi hai dato la forza di parlarne”. Vedi: Alex Turner ed Eminem avevano dato a me delle risposte quando io mi sentivo perso. Ed essere io in grado di farlo per altre persone è stupendo.

Quindi non solo è una buona canzone ma è stata anche utile per qualcun altro.

Esatto: non voglio solo scrivere belle canzoni, voglio che abbiano un impatto e che facciano pensare le persone. Al giorno d’oggi è raro che le persone si fermino un secondo a pensare. La gente ti guarda come se fossi pazzo: “Cosa? Vuoi pensare?”. Sì, pensiamo.

Anche quanto scrivi canzoni sull’amore, come in I Love You, Will You Marry Me, in realtà parli di ingiustizia sociale. Cosa ti ha commosso di quella storia?

Quella storia arriva dalle mie parti. Volevo prendere una storia di una piccola città e proiettarla in una dimensione universale. È una storia di due giovani – erano appena più grandi di me – a Sheffield. Nella zona di Park Hill ci sono cinque palazzi collegati da ponti e negli anni ’90 erano diventati un posto molto malfamato: la polizia non ci andava. Park Hill era considerata una cosa separata da Sheffield. Questi due ragazzi erano innamorati. Lui si calò su uno dei ponti e scrisse: “Ti amo, vuoi sposarmi?”. Ma la storia non ha un lieto fine perché lei aveva due figli e i servizi sociali dissero che lui non era adatto ad essere un padre. Poi riqualificarono quegli stabili ed evidenziarono quella scritta con delle luci al neon e la usarono per vendere gli appartamenti. Ne fu fatto persino del merchandise. Il ragazzo diventò un senzatetto e chiese almeno un po’ di soldi o uno degli appartamenti perché stavano usando questa cosa per vendere quegli spazi. La canzone è un po’ la mia versione della storia: penso fosse profondamente sbagliato ricavare soldi da quella storia d’amore.

La canzone Anarchist non è sull’anarchia ma sull’ADHD, che ti è stato diagnosticato.

Sì, i dottori mi dicevano così quand’ero piccolo, ma semplicemente ero molto energico.

Pensi che ci sia ancora ignoranza o una forma di stigma su quel tipo di disturbo?

Credo che finalmente la salute mentale venga presa sul serio. Ma anche per chi non ha l’ADHD o cose del genere, anche per chi è un po’ diverso o non si conforma a un certo tipo di normalità, che magari è pieno di energie o si esprime in una maniera diversa, essere frainteso e non preso sul serio può essere davvero fastidioso. Quello che dico è: se non sei come chiunque altro, se non sei come gli altri ragazzi, allora sei un anarchico. Questo è quello che volevo rappresentare. È una canzone sull’accettazione di sé e sul non voler essere fraintesi.

Hai 19 anni. Qual è una cosa che ti piace e una che non ti piace della tua generazione?

Bella domanda! Una cosa che mi piace è che siamo in gamba e stiamo cominciando a parlare dei problemi che ci sono. Meglio che perdersi sullo schermo dei telefoni con lo sguardo verso il basso – e questa è una cosa che non mi piace. Cazzo, mettete un piede nel mondo reale per 10 minuti!

Ascolta l’EP YUNGBLUD in streaming

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